Roncalli, la tragedia della Guerra Mondiale
Da Giuseppe Roncalli alla Prima Guerra mondiale a Giovanni XXIII della Pacem in Terris
«Oh, le lunghe notti vigilate fra i giacigli dei cari e valorosi soldati ad accogliere le loro confessioni! Oh, le belle canzoni a Maria intonate presso i semplici altari provvisori! Oh, la sublime solennità delle Messe al campo e le care piccole feste dell’ospedale, dove si rigustava, specialmente a Natale, a Pasqua, in maggio, la poesia della chiesa del proprio paese, nel tenero ricordo delle madri e delle spose lontane, nell’ansiosa aspettazione della fine del duro sacrificio… Tante volte ci siamo chinati ad ascoltare, sul petto ansante dei nostri giovani fratelli che morivano, il respiro affannoso della Patria. Morti, semplici e sante, di tanti poveri figli del nostro popolo, modesti lavoratori dei campi, delle Marche, della Garfagnana, dell’Abruzzo, delle Calabrie, che si spegnevano con il Sacramento di Gesù sul petto e con il nome di Maria sulle labbra, non bestemmiando al duro destino, ma lieti di offrire la loro fiorente giovinezza in sacrificio a Dio per i fratelli».
In questa lirica pagina il sergente di Sanità Angelo Giuseppe Roncalli narra i suoi sentimenti e le sue esperienze di cappellano militare nella prima guerra mondiale. La sua è una visione idilliaca rispetto alla brutale imprecazione di un innominato soldato nella battaglie di Verdun e della Somme in Francia: «C’è Dio in tutto questo? Se è qui, che sia dannato!». Perché la Grande Guerra fu un’orribile carneficina.
All’entrata nel conflitto dell’Italia cento anni fa il 24 maggio 1915, il torinese mons. Angelo Bartolomasi, è scelto del Benedetto XV come «vescovo di campo». Il governo italiano conferma la nomina e approva la costituzione della Curia castrense:: «È istituita la carica di vescovo di campo che avrà l'alta direzione del Servizio spirituale nell'Esercito e nella Marina e avrà autorità ecclesiastica disciplinare su tutti i cappellani militari di terra e di mare»
A differenza del Regno di Sardegna, lo Stato unitario non prevede i cappellani militari. La motivazione ufficiale è la necessità di fare economia; quella reale è che i governi prima e dopo l’Unità d’Italia sono ferocemente anticristiani, anticlericali e massoni. Nel caso di mobilitazione generale è raccomandata la presenza di ministri di culto cattolici solo nelle sezioni di sanità e negli ospedali da campo.
Il comandante in capo generale Luigi Cadorna, fervente cattolico novarese, anticipa l'autorità governativa e religiosa e il 12 aprile 1915 con una circolare stabilisce l'assegnazione di un cappellano a ogni reggimento delle varie armi e corpi dell'Esercito. Così i distretti militari e le direzioni di sanità arruolano i primi 700 cappellani che passano al vaglio della Curia castrense che ne riconosce 89 «non idonei».
Il vescovo di campo il 20 giugno 1915 scrive ai cappellani militari, sacerdoti diocesani e religiosi: «A voi, che alla missione di apostoli di Gesù Cristo accoppiate la sorte altamente meritoria di soldati della Patria, l'augurio sincero che tra le fatiche del servizio militare non vi manchi il coraggio del dovere, tanto più nobile quanto esso è arduo; tra i dolori dei feriti e infermi vi accompagni la carità dolce e generosa; tra le battaglie vi spronino quegli apostolici ardimenti, che infondono nei soldati lo spirito del sacrificio e lo slancio valoroso. Vi raccomando di celebrare divotamentela Messacon la possibile osservanza delle prescrizioni liturgiche, compensando coll'intimo fervore le necessarie manchevolezze e la povertà degli altari; e di recitare, sempre che ne avrete tempo e modo, il Divino Officio o altre preghiere: veggano ufficiali e soldati che voi siete uomini di preghiera. Ricordatevi che siete e dovete apparire “forma gregis”».
In tuttala Grande Guerra i cappellani militari sono 2.048 e gli aiuto-cappellani 576. Vengono mobilitati circa 15 mila preti e chierici. Non c'è accordo tra gli storici su questi numeri. Padre Giovanni Semeria, barnabita, cappellano militare della prima ora, in un articolo del 1916 sulla rivista del Touring Club Italiano scrive: «Questo vescovo senza territorio Bartolomasi, la cui diocesi ha tra cappellani e preti-soldati un clero mastodontico che oscilla tra i 15 e i 20 mila». Lo storico alessandrino Maurilio Guasco invece scrive: «I cappellani furono 2.700, la metà in prima linea e gli altri negli ospedali territoriali. C'erano 25.000 preti-soldati, chiamati a combattere e, se trovavano comprensione nei superiori, addetti a unità sanitarie. Essere cappellano era uno status ambito da molti ecclesiastici mobilitati. Si aveva il grado, lo stipendio, i privilegi degli ufficiali, si poteva svolgere attività religiosa, si sfuggiva all'abbrutimento delle trincee, non si sparava e non si uccideva».
I cappellani militari e i preti-soldati offrono la vita sul campo, in trincea, accanto ai soldati impegnati in duri e aspri combattimenti: 93 cappellani caduti; 3 medaglie d’oro; 137 medaglie d’argento; 299 medaglie di bronzo; 94 croci al valor militare.
Don Vittorio Pignoloni ha fatto una certosina e provvidenziale ricerca negli archivi dell’Ordinariato militare e ha pubblicato il pregevole volume di quasi mille pagine «I cappellani militari d’Italia nella Grande Guerra. Relazioni e testimonianze (1915-1919), San Paolo. Scrive Pignoloni: «Prezioso e generoso fu il contributo dei preti-soldati alla pastorale del cappellano non solo negli ospedali da campo, di tappa e someggiati, nei treni attrezzati, ma anche nelle sezioni di sanità e nei reggimenti impiegati nelle infermerie. L'attenzione del vescovo di campo e dei cappellani verso i preti-soldati e i chierici fu prioritaria e costante, sviluppandosi in aiuto fraterno quotidiano a rimanere fedeli al carisma della propria vocazione. Nella maggior parte delle relazioni si rivelano l’ansia e l’opera evangelizzatrice del cappellano, promossa e condotta vivendo fianco a fianco al soldato, come uno di loro. Quanto mai saggia e ispirata risultò la scelta del vescovo di campo, operata da Benedetto XV e apprezzata dalle autorità governative e militari. I cappellani militari e i preti-soldati amarono mons. Bartolomasi, arcivescovo dell'Italia in armi, il quale non rimase a Roma, ma seguì l'Esercito al fronte, con ufficio di riferimento a Treviso».
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