Commercio delle armi, una vergogna

Analisi: nel tempo della crisi globale, delle guerre e delle tragedie umanitarie

Parole chiave: affari (1), armi (8), commercio (20), povertà (47), guerre (3), pace (90)
Commercio delle armi, una vergogna

C'è una violenza che è nell'assenza, nel passare oltre, c'è violenza nel dover lavorare gratis «perché così ti fai un nome», c'è violenza nell'urbanistica (del disprezzo), nelle relazioni quotidiane, nelle relazioni tra gli Stati, tra governi e cittadini, tra criminali e cittadini, tra uomo e ambiente, tra uomini e donne e nella distribuzione della ricchezza. E tutto questo è flusso non liquido, ma un dato strutturale delle società in cui il conflitto è onnipresente. A volte è qualcosa di così pervasivo che nemmeno si vede, appare una legge di natura, come la sottomissione di una casta, come una tradizione atavica. Vi sono punte massime come le guerre, le migrazioni forzate, i 62 super-ricchi che posseggono una ricchezza pari a quella dei 3 miliardi e 600 milioni di persone della metà più povera della popolazione mondiale, circa 1.760 miliardi di dollari. Ma lo sfondo generale sono i processi di selezione e stratificazione sociale attivi in tutta la società contemporanea. Sono fatti che non si vedono perché macinati nei tweet, negli instant, consumati velocemente. A questo occorre restituire la parola, raccontare i fatti per farli divenire «realtà». Le parole appunto, armi leggere (light weapons -mitragliatori pesanti, alcuni tipi di lancia granate, razzi anti-aereo ed anti-carro armato, sistemi di lancio di missili anti-aereo portatili e mortai dal calibro inferiore ai 100-120 mm2) così vengono chiamate oppure piccole (small arms -revolver e pistole, fucili, carabine, fucili d'assalto, mitragliette e fucili-mitragliatori). Piccole o leggere le conseguenze sono pesanti: violenze, feriti, morti.

Si stima che le armi piccole e leggere in circolazione nel mondo ammontino attualmente a circa 875 milioni di unità delle quali il 75% circa (650 milioni) sono detenute da civili. Si stima inoltre che ogni anno siano circa 526.000 le persone uccise da queste armi, di cui circa l'80% perde la vita al di fuori di scenari di conflitti armati (per omicidi, suicidi, esecuzioni extragiudiziali, violenza di genere, sparizioni forzate, rapimenti). A questo numero va poi aggiunto quello dei feriti e delle vittime delle conseguenze indirette della violenza armata: fame, mancanza di cure sanitarie. Il mercato globale di queste armi (leggere) raggiunge valori annuali di 8,5 miliardi di dollari, cui vanno aggiunti i proventi, incalcolabili, del florido commercio illegale. L'Italia, in particolare, è tra i maggiori esportatori a livello globale di armi civili piccole e leggere, loro componenti e munizioni. Malgrado la perdurante crisi economica e finanziaria mondiale, il valore globale delle esportazioni effettuate nel 2012 ha raggiunto la cifra record di 496.721.620,00 euro (seconda solo a quella fatta registrare nel 2010, di 553 milioni). Si rileva, inoltre, che malgrado l'implementazione, sia a livello nazionale, sia comunitario e internazionale, delle norme volte a creare controlli più severi e procedure più rigide per il commercio internazionale di armi, nonché a rafforzare la cooperazione tra gli Stati al fine di contrastare il traffico illecito e l'afflusso di armi in Paesi non rispettosi dei diritti umani oppure affetti da tensioni o conflitti, non sono invece diminuite le esportazioni di verso zone del mondo critiche sotto questi punti di vista. Come spiega la ricercatrice Alessandra Russo «l’opacità degli affari nel settore armiero non è stata arginata né dall’esistenza di un codice di condotta dell’Ue sul commercio di armi, né dalle sinergie stabilite tra il Consorzio dell’Ue per la non-proliferazione e il Servizio europeo per l’azione estera, né dal recente finanziamento al progetto iTrace (un sistema di geolocalizzazione delle armi leggere e di piccolo calibro e delle munizioni convenzionali finalizzato alla riduzione del rischio del loro commercio illegale)».

E l'Italia?

L'Italia ha esportato nel 2015 8,2 miliardi di euro di armamenti (triplicate rispetto all'anno precedente). Si tratta di spese relative a programmi di cooperazione intergovernativa che riguardano principalmente i Paesi Nato e Ue e commesse di esportazione di sistemi militari. Nello specifico sono state rilasciate 2.775 autorizzazioni all'esportazione. Dai dati del ministero non è possibile risalire ai Paesi destinatari, ma sulla base dei dati raccolti dall’Osservatorio Opal utilizzando dati Istat ed Eurostat si ha il dato riguardante l'esportazione delle armi leggere (fucili, pistole e proiettili) da cui emerge che un terzo vengono vendute a regimi repressivi e a Paesi in zone di conflitto. In Arabia Saudita sono state effettuate vendite per 37 milioni di euro (molti gli ordigni italiani usati per bombardare lo Yemen). Si tratta di bombe prodotte dalla Rwm Italia, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall con sede legale a Ghedi (BS) e stabilimento a Domusnovas in Sardegna. Altri Paesi destinatari sono stati l'Egitto e i Paesi del nordafrica per complessivi 52 milioni di euro, cifra record dell’ultimo ventennio. Significative la vendite Turkmenistan che ha ricevuto armi e munizioni per 87 milioni di euro, nonostante nella graduatoria del Democracy Index 2013 figuri tra i maggiori “regimi autoritari” del mondo: nella “scala della democrazia” è 161° su 165 posti. In calo sono invece due mercati storici delle nostre esportazioni armate: Singapore (comunque 31 milioni anche lo scorso anno) e la Turchia (oltre 35 milioni, la quasi la totalità di tipo militare). Al riguardo vanno segnalate le consistenti forniture, principalmente dalle province di Brescia e di Urbino, di armi destinate a Messico, Libano, Marocco e Oman: sono Paesi in cui la forza pubblica è stata spesso denunciata dalle organizzazioni internazionali per reiterate violazioni dei diritti umani.

E Torino?

Nonostante il problema oggettivo di monitorare un fenomeno i cui dati sono parziali o nascosti c'è qualcosa che vorremo non sapere e con cui non pensiamo di avere a che fare perché troppo vicino a noi. Infatti, è notizia di queste settimane quella della fornitura di 28 Eurofighter al Kuwait, i caccia di fabbricazione europea, che saranno in parte progettati dagli ingegneri ex Alenia in corso Marche e realizzati dagli addetti della fabbrica di Caselle. Un affare che vale otto miliardi, di cui quattro a beneficio dell'italiana Finmeccanica. C'è stata  grande enfasi da sindacati, lavoratori e amministratori pubblici. Eppure non bisognerebbe dimenticare la leggenda greca dello schiavo-messaggero che portava iscritto sulla propria nuca rasata il messaggio che avrebbe dovuto recapitare senza poterlo leggere. Infatti, è storia di questi giorni quella di bombe italiane vendute all'Arabia Saudita utilizzate per la guerra in Yemen, così come sono un effetto di ritorno della vendita di armi le migliaia di rifugiati che si accalcano lungo le frontiere dell'Europa. Non a caso nel campo profughi di Idomeni si trova scritto in una tenda: «Se non vi piace il fatto che i rifugiati arrivino nei vostri Paesi smettetela di votare per quei politici che amano bombardare».  Quali alternative?

La violenza è in ognuno e in tutti, ma il sistema delle armi trasforma questa violenza in distruzione. Poi c'è il dato politico con il solo 10 per cento della spesa in armi si potrebbero coprire i costi degli obiettivi globali finalizzati a mettere fine alla povertà e alla fame entro il 2030, si tratta di una somma sufficiente a finanziare gli obiettivi di sviluppo sostenibile concordati dai 193 stati membri delle Nazioni Unite per porre fine alla fame e alla povertà entro il 2030. “Questa stima può dare un’idea alla gente del costo opportunità che deriva dalle spese militari globali” a dichiarato Sam Perlo-Freeman dell'istituto di ricerca Sipri (Stockholm Peace Research Institute). Anche a Torino, corso Marche, Caselle.

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