Papa Francesco e i pontefici sul genocidio del popolo armeno
Un lungo itinerario di confronti dentro il dramma della storia di un popolo
«Metz Yeghern, il Grande Male» è la tragedia che un secolo fa devastò il popolo armeno. L'Armenia oggi è uno Stato euroasiatico indipendente con capitale Erevan: confina con Turchia, Georgia, Azerbajgian, Nagorko Karabakh. Dopo la lunga dominazione ottomana, nel 1920 è invasa dai bolscevichi russi e diviene una delle repubbliche dell'Unione Sovietica. Dichiara l’indipendenza il 21 settembre 1991.
Un genocidio che nessuno ricorda. Sotto l’Impero Ottomano più di un milione e mezzo di armeni, che si rifiutano di rinnegare la fede cristiana, vengono sterminati. Un dolore che Papa Francesco condivide nella celebrazione liturgica in piazza san Pietro nella domenica della Divina Misericordia. Una scelta estremamente significativa nel silenzio del mondo. Il genocidio innesca la diaspora in Europa, Stati Uniti, Russia, Ucraina, Sudamerica. Papa Francesco pensa con tristezza «a quelle zone, come Aleppo, città martire, che furono approdo sicuro per i sopravvissuti», dalle quali i cristiani oggi rischiano di sparire sotto le nere bandiere dei terroristi islamici.
Un popolo antico e nobile, il primo che si converte al Cristianesimo nel 301. Il Pontefice giustamente ricorda Benedetto XV che intervenne «presso il sultano Mehmet V per far cessare i massacri» e proclamò Sant’Efrem il Siro «dottore della Chiesa»: Papa Francesco proclama «dottore della Chiesa» San Gregorio di Narek, vissuto mille anni fa.
Nell’Impero Ottomano c’è una coabitazione pacifica tra i musulmani e i non musulmani: i cristiani sono considerati di «serie B» ma sono protetti dall'Islam in quanto «gente del libro» e monoteisti. Pressola Sublime Portale minoranze religiose sono protette dalle potenze europee:la Franciatutela i cattolici,la Russiagli ortodossi,la Gran Bretagnai protestanti, gli Stati Uniti gli ebrei. La coabitazione regge fino a quando esplode il nazionalismo.
Il genocidio si verifica in due tempi: la campagna condotta dal sultano Abdul-Hamid II nel 1894-1896 e l’eliminazione degli armeni nel 1915-1920. Il movimento nazionalista dei Giovani Turchi, sostiene un patriottismo turco e islamico, soffoca i non musulmani, vede negli armeni dei pericolosi nemici, depone il sultano Abdul e lo sostituisce con il fratello Maometto V, nel 1909 stermina 30 mila armeni. Quando, alla vigilia della prima guerra mondiale, le potenze europee ritirano il personale diplomatico, minoranze e cattolici restano indifesi. I Giovani Turchi nell’aprile-maggio 1915 lanciano la pulizia etnica, la prima del XX secolo, contro i cristiani armeni: conversioni forzate all'Islam, deportazioni, uccisioni, torture, maltrattamenti. Oltre un milione e mezzo sono costretti nelle «marce della morte» e centinaia di migliaia muoiono di fame, malattia, sfinimento. Sovrintendono gli ufficiali tedeschi, in collegamento con l'esercito turco: è la «prova generale» della deportazione nazifascista degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Terrificante il racconto del Patriarca «Catholicos» armeno Terzian in una lettera a Roma il 20 dicembre 1918: «I massacri non sono limitati in tale o tale località o provincia ma prendono in pretesto le esigenze militari. Quest’atto del governo turco è organizzato con abilità diabolica per lo sterminio totale degli armeni, cominciando dai sacerdoti e vescovi in Turchia. Prima attaccano gli ecclesiastici, poi il popolo senza distinzione tra colpevoli e innocenti: mandano tutti in gruppi numerosi in Paesi lontani. Nel viaggio separano i sacerdoti dal popolo e gli uomini dalle donne. Fuori della città e dei villaggi aspettano i kurdi, i musulmani, briganti, organizzati e pronti per spogliare e ammazzare tutti con i fucili, con i bastoni, con le scuri. Le donne e le figlie sono scelte alla loro voglia; i piccoli ragazzi o calpestati o buttati nel fiume o qualche volta collocati nei orfanotrofi per educarli da musulmani. Grida strazianti si alzano al cielo da quelle vastissime pianure, diventate un immenso cimitero di armeni, nostri cari fratelli e figlie!».
Un bilancio tragico: centinaia di migliaia di morti e deportati; su 156 chiese e cappelle solo 20 risparmiate; delle 110 missioni se ne salvano 10; più della metà del clero è trucidato; 5 vescovi sono martirizzati, altri 3 muoiono di stenti; delle 15 diocesi solo 3 non sono distrutte. Prosegue il Patriarca: «Abbiamo sentito e pianto le numerose defezioni, ma siamo consolati che vescovi e sacerdoti hanno disposto i fedeli alla morte da martiri; hanno dato l'assoluzione generale, hanno consacrato il pane e l’hanno distribuito a tutti come viatico. Mons. Andrea Celebian, vescovo di Diarbekir, è stato sepolto vivo in un pozzo fino al petto e fucilato; mons. Ignazio Maloyan, arcivescovo di Mardin, è stato fucilato con i suoi sacerdoti fuori della città; mons. Michele Khaciadurian, vescovo di Malatia, è stato spogliato e inchiodato alle mani e piedi sul pian terreno nel carcere di Malatia, così anche i suoi sacerdoti».
A Roma Benedetto XV e il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri, ben consapevoli dell’immane tragedia, dettano la regola aurea a cui si ispira da un secolo l’azione della Santa Sede nei conflitti: aiutare tutti senza distinzione tra cattolici, ortodossi, protestanti, ebrei, musulmani. Benedetto XV come capo della Chiesa cattolica il 10 settembre 1915 interviene direttamente e pubblicamente con una lettera a Mehmet V, capo dell'Islam e dell’Impero Ottomano. Si dice convinto «che gli eccessi avvengono contro il volere del governo di Vostra Maestà»; chiede al sultano di intervenire a difesa del popolo armeno «il quale, per la religione che professa, è spinto a mantenere fedele sudditanza versola Maestà Vostra»; sollecita la punizione degli «armeni traditori o colpevoli di altri delitti ma non permetta Vostra Maestà, nell'altissimo suo sentimento di giustizia, che nel castigo siano travolti gli innocenti». Ma il sultano è ostaggio dei Giovani Turchi. Nella risposta del 10 novembre sostiene l'impossibilità di distinguere fra innocenti e sediziosi e di fatto giustifica deportazioni e pulizia etnica, conversioni coatte e uccisioni.
Gasparri incoraggia i nunzi perché «con ogni delicatezza ma anche con grande energia» facciano presente ai governi che le leggi dell'umanità e della civiltà impongono un intervento per «far cessare la barbarie che disonora non solo chi la commette, ma anche chi, potendolo, non li impedisce».
Benedetto XV inventa la «diplomazia del soccorso» e mobilitala SantaSede, i vescovi, il laicato e le comunità cattoliche. Una grandiosa organizzazione si occupa dei combattenti: raccolta e trasmissione di notizie sui militari caduti, prigionieri, feriti; agevolazioni per il rimpatrio degli inabili; protezione dei detenuti nei campi di prigionia o di internamento. Soccorsi alle popolazioni civili nei territori occupati o nelle zone di concentramento; invio di aiuti finanziari, vestiario e vettovaglie. Lo stesso avverrà con Pio XII e mons. Giovanni Battista Montini nella seconda guerra mondiale.
Scrive lo storico John F. Pollard in «Il Papa sconosciuto. Benedetto XV (1914-1922) e la ricerca della pace» (2001): «Le sue opere di sostegno umanitario furono innumerevoli. Spese circa 82 milioni di lire, portando il Vaticano quasi alla bancarotta». Il giornalista e storico laicista e anticlericale Carlo Falconi ne «I Papi del ventesimo secolo» (1967) definisce quello di Benedetto XV «il più misconosciuto dei pontificati del secolo. Se c’è un pontificato che ha preparato e preannunciato il miracolo di Giovanni XXIII, il florido e raggiante contadino bergamasco, questo è quello di Giacomo della Chiesa, il fragile e contorto aristocratico genovese». Al popolo armeno rende omaggio Giovanni Paolo II nella visita in Armenia il 24-27 settembre 2001 parlando di «aberrazione disumana, indicibile terrore e sofferenza».
Anche a Torino arrivano i profughi. Nell’opera di soccorso eccelle il venerabile Adolfo Barberis, segretario del cardinale arcivescovo Agostino Richelmy, che testimonia: «Si ripetono un poco le opere di carità di Lourdes, ma in beneficio dei poveri profughi, nell'Istituto di Sant'Anna. Si vanno ad accogliere alla stazione donne e fanciulli a tutte le ore della notte: si dà loro da mangiare e da bere, poi un poco di materasso per riposare, una benedizione, spesso Messa, confessione e comunione, poi si mandano a spasso nel nome del Signore, e si accolgono altri».
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