Il prete del futuro, ecco il nuovo decreto
Prete dell’altare, del pulpito, del confessionale: è stata per secoli la chiave di formazione dei sacerdoti, grazie alla quale in Piemonte c’è stata un’eccezionale fioritura di santità sacerdotale.
Con il Concilio le cose sono cambiate, sono cambiati il mondo e la Chiesa, sono cambiate le comunità. In Occidente i preti sono una razza quasi in estinzione. La Congregazione per il clero ha promulgato la nuova «Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis»: i preti siano leali, per nulla rigidi, mai ipocriti e con il «senso del bello», non sono «uomini del fare» e sappiano ascoltare. Il testo aggiorna le regole ferme al 1985 e spiega nei minimi dettagli come deve avvenire la formazione dei seminaristi.
Al centro c’è la formazione integrale, capace di «unire in modo equilibrato le dimensioni umana, spirituale, intellettuale, pastorale, attraverso un cammino graduale e personalizzato». Perché la novità «non sono mai separate dalla tradizione, ma la integrano e la approfondiscono». Occorre «superare alcuni automatismi del passato; la sfida è proporre un cammino di formazione integrale che aiuti la persona a maturare in ogni aspetto e favorisca una valutazione finale fatta in base alla globalità del percorso. Per essere un buon prete, oltre ad aver superato tutti gli esami, occorre una comprovata maturazione umana, spirituale e pastorale».
1) Umanità - «Abbiamo bisogno di sacerdoti dal tratto amabile, autentici, leali, interiormente liberi, affettivamente stabili, capaci di intessere relazioni interpersonali pacificate e di vivere i consigli evangelici senza rigidità, né ipocrisie o scappatoie». Inoltre «è necessario coltivare l’umiltà, il coraggio, il senso pratico, la magnanimità di cuore, la rettitudine nel giudizio e la discrezione, la tolleranza e la trasparenza, l’amore alla verità e l’onestà». Senza dimenticare «la salute, l’alimentazione, l’attività motoria, il riposo». Di fondamentale importanza che il seminarista raggiunga un’«equilibrata autostima, che lo conduca ad avere consapevolezza delle proprie doti, per imparare a metterle al servizio del popolo di Dio. Occorre curare l’ambito estetico con un’istruzione che permetta di conoscere le manifestazioni artistiche, educando al “senso del bello”, e l’ambito sociale, aiutando il soggetto a migliorare nella propria capacità relazionale».
2) Spiritualità – Il prete «non è un organizzatore religioso o un funzionario del sacro, ma discepolo innamorato del Signore, la cui vita e il cui ministero sono fondati nell’intima relazione con Dio». Il pastore impara a uscire dalle proprie certezze precostituite «e non penserà al proprio ministero come una serie di cose da fare o di norme da applicare, ma farà della propria vita il “luogo” di un accogliente ascolto di Dio e dei fratelli».
3) Discernimento - Parlando alla Compagnia di Gesù, il Papa si è detto preoccupato perché nei Seminari «è tornata a instaurarsi una rigidità che non è vicina a un discernimento delle situazioni». Deve saper ascoltare.
Fino al Concilio (1962-65) la formazione è tesa a far scomparire la persona per farla diventare un «alter Christus», sempre e comunque. Nel 1946 in una lettera al clero l’episcopato subalpino parla del «sacerdos alter Christus» per la salvezza delle anime con «uno zelo disinteressato, disciplinato, coraggioso davanti alle novità». Pio XII nell’esortazione apostolica «Menti nostrae» (23 settembre 1950) ribadisce che il prete, «alter Christus», deve eccellere per santità, umiltà, obbedienza, castità perfetta, povertà; enumera le pratiche di pietà.
La segregazione deve essere totale; la formazione uguale per tutti, senza gradualità, senza distinzione d’età, senza attenzione all’estrazione culturale e sociale, senza sostanziali differenze tra Seminario maggiore e minore. Quest’ultimo è spesso l'unica possibilità di proseguire gli studi dopo le elementari: l'assenza di scuole nelle campagne spinge i ragazzi verso il Seminario per studiare e acquisire un titolo. Spesso le richieste sono superiori alle capacità recettive e le rette mensili sono basse o nulle per l’estrema povertà delle famiglie. Il monaco Enzo Bianchi ricorda che al suo paese nell’Astigiano in autunno i frati passavano con un carretto a raccogliere vino e ragazzi per il Seminario.
Dal momento in cui il ragazzino di 11-12 anni entra in Seminario è considerato un «prete in erba». Sostanzialmente la formazione è la stessa dei religiosi nei noviziati ed è molto più rigida di quella dei collegi. Si richiede al «levita» che lo stile di vita e il portamento, la pietà e la condotta, le parole e i modi di pensare e agire, di giocare ed esprimersi, di studiare e atteggiarsi, tutto sia consono al «santuario». Molto presto indossa la talare nera, segno di segregazione, e non deve mai lasciarla, neppure quando gioca a pallone, o fa ginnastica, o va in montagna. Non si tiene conto che i ragazzi hanno bisogno non solo di coccole ma anche di una formazione completa: fisica e psicologica, sentimentale e sessuale, attitudinale e religiosa, intellettuale e culturale. Hanno voglia e bisogno di giocare, correre, fare esercizio fisico.
I superiori sono più ripetitori che educatori: carente la loro preparazione psicologica e l’attitudine educativa. Scarsa o nulla l’attenzione alla maturazione della persona. Di educazione sessuale neppure a parlarne. Quasi assente l’educazione al bello e all’arte, anche quella sacra è negletta.
In un ambiente isolato dal mondo, un rigido orario scandisce la vita, nulla è lasciato al caso o alla libertà. Le giornate sono ritmate da preghiere e pratiche di pietà, scuola e studio, ricreazione e riposo. Il seminarista si alza e si corica presto: con ridicole contorsioni, in onore della santa virtù, indossa e si toglie pantaloni e mutande e/o pigiama armeggiando sotto le coperte del letto nelle camerate senza riscaldamento. Anche a casa gli orari sono legati alle stagioni e d’inverno le stanze sono fredde e ci si scalda solo nella stalla. Ogni settimana il seminarista è valutato con i voti: pietà, studio, disciplina, urbanità.
Non c’è rapporto con il mondo. L’anno scolastico inizia ai primi di ottobre e termina, senza interruzioni, nella seconda metà giugno. Durante l'anno non si rientra in famiglia – neppure per Natale e Capodanno, Carnevale e Pasqua - se non per gravi ragioni come la malattia del giovane, la morte di uno stretto congiunto, ma mai per le feste di matrimonio, neppure di fratelli e sorelle.
Totale la «fuga mundi». Ridottissimi i contatti con i laici. Escluso ogni rapporto con l’altro sesso: la donna è vista come «diavolo tentatore». Sovrana è la regola del silenzio, anche durante i pasti: colazione, pranzo, cena sono rallegrati da letture edificanti. Niente letture di svago; niente «Topolino», fumetti e giornalini; niente giornali né riviste; niente cinema né teatro; niente televisione né radio (neppure le partite della domenica pomeriggio); niente riviste né libri. Giochi o sport poco o niente. Le vacanze sono «la vendemmia del diavolo» e vanno ridotte al minimo.
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