Francesco, mai violenza in nome di Dio
Lo storico viaggio in Egitto di Papa Bergoglio
Insieme affermiamo l’incompatibilità tra fede e violenza, tra credere e odiare. Siamo chiamati a condannare i tentativi di giustificare ogni forma di odio in nome della religione». Papa Francesco, in visita al Cairo il 28-29 aprile 2017, ribadisce che non può esserci alcuna copertura religiosa per il terrorismo.
All’università Al Azhar del Cairo, luogo-simbolo dell’Islam sunnita, i capi religiosi dell’Egitto e i partecipanti alla Conferenza internazionale di pace osservano un minuto di silenzio a ricordo delle «vittime del terrorismo di tutte le nazionalità». Lo chiede il grande imam Ahmed Al Tayyib, all’inizio del discorso con il quale accoglie il Papa di Roma: la visita di Bergoglio è «storica» e «avviene in un momento di pace perduta, ricercata da popoli, nazioni e genti in fuga dai propri Paesi». Afferma l’imam: «L’islam non è una religione del terrorismo» come non lo sono Cristianesimo ed Ebraismo. Punta il dito contro il traffico internazionale di armi e alcune decisioni politiche, a livello internazionale, indicando come responsabili dello «stato di caos» che regna in tanti Paesi. Ma non spiega quali sono queste «decisioni politiche».
Francesco chiama il grande Imam «caro fratello» e definisce l’Egitto «terra di civiltà e di alleanze»; sottolinea l’importanza di «un’educazione adeguata delle giovani generazioni, di una formazione rispondente alla natura dell’uomo, essere aperto e relazionale» contro «la tentazione di irrigidirsi e chiudersi»; ricorda l’insegnamento del passato: «Dal male scaturisce solo male e dalla violenza solo violenza, in una spirale che finisce per imprigionare»; rilancia il dialogo nel quale «siamo chiamati a camminare insieme, nella convinzione che l’avvenire di tutti dipende anche dall’incontro tra le religioni e le culture»; offre tre «orientamenti fondamentali» per il dialogo: il dovere dell’identità «perché non si può imbastire il dialogo sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro»; il coraggio dell’alterità perché chi è «differente da me» non sia trattato come nemico; la sincerità delle intenzioni «perché il dialogo non è una strategia per realizzare secondi fini».
La via migliore è «educare all’apertura rispettosa e al dialogo sincero con l’altro, riconoscendone i diritti e le libertà fondamentali: l’unica alternativa alla civiltà dell’incontro è l’inciviltà dello scontro. Per contrastare la barbarie di chi soffia sull’odio e incita alla violenza, occorre che le generazioni rispondano alla logica incendiaria del male con la paziente crescita del bene». Cita Giovanni Paolo II, che invitava cristiani e musulmani a chiamarsi «gli uni gli altri fratelli e sorelle» e osservava come «le differenze di religione non hanno mai costituito un ostacolo ma un arricchimento reciproco». Invoca Francesco d’Assisi «che otto secoli fa venne in Egitto e incontrò il sultano Malik al Kamil».
Il dialogo tra le religioni è importante «di fronte a un pericoloso paradosso: si tende a relegare la religione nella sfera privata, senza riconoscerla come dimensione costitutiva dell’essere umano e della società; si confonde, senza opportunamente distinguere, la sfera religiosa e quella politica». Due estremi da evitare: il primo nelle società secolarizzate dell’Occidente; il secondo nei Paesi islamici dove le norme religiose sono imposte a tutti. In realtà «la religione non è un problema ma è parte della soluzione», è l’antidoto contro «la tentazione di adagiarci in una vita piatta, dove tutto nasce e finisce quaggiù».
Tra i dieci comandamenti Bergoglio cita il «non uccidere» e spiega che la violenza «è la negazione di ogni autentica religiosità. Siamo chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità, facendo leva sull’assolutizzazione degli egoismi anziché sull’autentica apertura all’Assoluto. Siamo tenuti a denunciare le violazioni contro la dignità e i diritti dell’uomo, a portare alla luce i tentativi di giustificare ogni forma di odio in nome della religione e a condannarli come falsificazione idolatrica di Dio. Solo la pace è santa e nessuna violenza può essere perpetrata in nome di Dio, perché profanerebbe il suo nome».
Il passo centrale di un discorso di alta levatura è: «Insieme ripetiamo un “no” forte e chiaro a ogni forma di violenza, vendetta e odio commessi in nome della religione o in nome di Dio. Insieme affermiamo l’incompatibilità tra violenza e fede, tra credere e odiare. Insieme dichiariamo la sacralità di ogni vita umana contro qualsiasi forma di violenza fisica, sociale, educativa o psicologica». Aggiunge: non serve «alzare la voce e riarmarsi per proteggersi. C’è bisogno di costruttori di pace, non di provocatori di conflitti, di vigili del fuoco e non di incendiari di scontri, di predicatori di riconciliazione e non di banditori di distruzione. I populismi demagogici non aiutano a consolidare la pace e la stabilità».
Conclude Francesco: per prevenire i conflitti e costruire la pace «è fondamentale rimuovere le situazioni di povertà e sfruttamento, dove gli estremismi più facilmente attecchiscono, e bloccare i flussi di denaro e di armi verso chi fomenta la violenza. Più alla radice è necessario arrestare la proliferazione di armi che, se vengono prodotte e commerciate, prima o poi verranno utilizzate. Solo rendendo trasparenti le torbide manovre che alimentano il cancro della guerra se ne possono prevenire le cause. Un impegno urgente e gravoso al quale sono tenuti i responsabili delle nazioni, delle istituzioni e dell’informazione». Alla Conferenza internazionale di pace partecipano Abdel-Fattah Al-Sisi, presidente dell’Egitto; Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli; Tawadros II, Patriarca dei copti ortodossi.
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