Storie e aneddoti legati al percorso sindonico
Erano trascorsi pochi anni da quando Colombo era sbarcato nelle Americhe e già nel porto di Lisbona attraccavano navi cariche di semi tropicali, frutta succosa, stoffe leggere e colorate, nuove ambizioni, scoperte ed energie nuove da portare in tutta Europa
L’ultimo giorno dell’anno 1504, mentre alla corte di Emanuele Gonzaga tutto era pronto per festeggiare l’arrivo di un anno fortunato, al piano superiore veniva alla luce una bimba dai capelli rossi, la Principessa Beatrice, figlia del Re di Portogallo. Non fu mai regina se non di cuori. L’amore per la sua patria e per il padre, il senso del dovere e delle sorti della sua gente la spinsero a lasciare quella corte affacciata sull’oceano e sul futuro per abbracciare un mondo più piccolo e lontano dal mare. Molto più adulto di lei, Carlo Duca di Savoia, che non aveva mai voluto prender moglie, si innamorò di Beatrice, Principessa difficile ed autorevole, politicamente capace e solita a decisioni strategiche. La portò a vivere a Chambery, in una città che non lo amava più ed in un regno sempre più piccolo che guardava alla Francia e non certo a Torino. Fu l’affiatamento dei neosposi a consentire un nuovo inizio per il Ducato. Il grande amore di Beatrice per il marito e per le terre ai piedi delle Alpi la convinsero a guardare a quella parte di Savoia che si proiettava nella pianura verso Milano e intrecciava rapporti di amicizia con Francesco Sforza e Cristina di Danimarca. Entrambi avevano ripetutamente offerto a Beatrice e Carlo di Savoia ospitalità e protezione. Gli sposi presto accettarono. A Chambery la vita dei Duchi era ormai davvero faticosa e tra gli avvenimenti che fecero maturare in loro il convincimento di abbandonare Chambery ci fu un incendio. Qualcuno dice doloso.
Nella notte tra il 3 e 4 dicembre del 1532, nella sacrestia della Sainte Chappelle fatta costruire dal Amedeo IX di Savoia, marito di Jolanda, beato per volontà di San Francesco di Sales, in quella notte, tra i banchi in legno, si sprigionarono fiamme violente e ben visibili anche dall’esterno. Il fuoco faceva paura ma molti non temevano per se stessi bensì temevano per quanto era custodito nella cappella: un panno, un lenzuolo proveniente dall’oriente e che, si diceva, esser quel lenzuolo in cui Giuseppe di Arimatea e Nicodemo avevano avvolto il corpo esanime di Gesù. Ecco di cosa si aveva paura, non del fuoco in sé ma di perdere la Reliquia più importante. Fu Filippo Lambert, canonico e Consigliere ducale il primo a rompere gli indugi e con l’aiuto del fabbro Guglielmo Pussod e di due frati francescani entrò nella cappella e sottrasse l’urna argentea in cui la Reliquia era custodita. I quattro coraggiosi erano stati svelti, più svelti del fuoco ma le malelingue non erano da meno e prima che il sacro Telo fosse in salvo, i delatori della Fede avevano sparso la voce che era bruciato tutto, la cappella e tutto quello che c’era dentro, anche quel Lino, anzi, soprattutto quello. Non sembrava possibile eppure in molti avevano visto le fiamme e anche se qualcuno diceva di aver visto padre Lambert portare in salvo l’urna… La sensazione era quella di dolore e dispiacere non per aver perso qualcosa a cui si teneva molto ma qualcosa che si pensava indistruttibile, come quando muore qualcuno che si pensava immortale. Persino i Savoia, senza Sindone, sembravano meno amati dal Cielo, tutto era contro di loro. Racimolato un po’ di coraggio, Carlo fece richiesta al papa Clemente VII de Medici affinché suggerisse l’atteggiamento migliore da tenersi in queste circostanze. Il papa assegnò al cardinale Ludovico di Gorrevod, in veste di Legato pontificio, di vegliare sulla Sindone e sul lavoro di rammendo che le monache clarisse si apprestavano e fare.
Tutte le paure, i pericoli scampati, i protagonisti di quei giorni sono immortalati in un affresco di sei metri e venti centimetri chiaramente visibile a Ceres, in frazione Voragno e datato 1535. Vescovi e Duchi, lampadofori, il cardinale di Gorrevod e Lui, l’Uomo della Sindone in primo piano. Sembra, guardando quell’affresco, di sentire ancora la stessa domanda: “Voi, chi dite che io sia?”.
Il lavoro delle clarisse era stato impeccabile, la Sindone era rammendata ad arte, i Duchi avevano pronta una nuova urna per custodire la Sindone e pronti erano i bagagli, pochi, per lasciare Chambery.
Non ne fecero parola con nessuno. Sicuramente a corte qualcuno osservava e interpretava i silenzi ed il via vai degli ultimi giorni ma Carlo e Beatrice seppero arginare i loro timori e smorzare i sospetti del personale di casa. I messi andavano e venivano con la corrispondenza da e per Milano, Vercelli e Torino attraverso la strada più breve, quella delle Terre di Margherita e grazie all’agilità dei vitun, uomini di montagna usi alla fatica e alle insidie della natura.
Notte tempo, Carlo e Beatrice lasciarono la capitale sabauda e raggiunsero i villaggi di Lanslebourg, Bessans, Bonneval e l’Averole. Da lì, si apre uno scenario di cime e pascoli difficile da contenere in un sol colpo d’occhio. La piccola carovana aveva poco tempo per attraversare le Alpi e pochi amici su cui contare. Se avessero scelto di passare per l’Iseran avrebbero impiegato troppo tempo per arrivare a Milano, trovato troppi valichi da passare e incontrato i Calvinisti, gli stessi che volevano distruggere tutte le Reliquie cristiane. Proprio in quella zona numerosi soldati della legione Tebea avevano perso la vita in nome del Cristo Risorto.
Non sarebbero potuti passare dal Moncenisio, Beatrice e Carlo, perché in mano francese. Solo una era la strada amica ai Savoia, quella conosciuta come Terre di Margherita, le Valli di Lanzo, colle Arnàs, Pian della Mussa e Balme poi Ceres, e, senza entrare in Lanzo che in quegli anni era sotto la sovranità degli Este, attraverso Sant’Ignazio raggiunsero il Canavese, Vercelli e infine Milano. Quando arrivarono a Milano, nella primavera del 1536, Cristina era da poco rimasta vedova di Francesco Sforza ed il Governatore di Milano fece costruire, davanti al castello, un ribellino da cui poter esporre la Sindone.
Quando furono al di qua delle Alpi, con l’animo stretto tra la malinconia di chi non sa se potrà tornare a casa e il desiderio di ricominciare, stretto tra un sospiro di sollievo per essere salvi e aver salvato anche la Sindone ed un respiro di speranza per un futuro migliore, quando si sentirono al sicuro, mandarono in valle i migliori artisti affinché lungo tutto il percorso si scrivessero quelle pagine di storia, l’inizio della nostra storia.
Carlo Duca di Savoia aveva scelto Vercelli come nuova capitale e lì trasferito la Zecca, il Senato e la Corte dei Conti, era stato raggiunto dai suoi uomini di fiducia, e disposto affinché la Sindone fosse custodita presso la chiesa di sant’Eusebio. Quando tutto sembrava andar bene, dopo che Beatrice riconquistò il Marchesato di Ceva e la Contea di Asti, quando l’erede Emanuele Filiberto cresceva robusto nel corpo e nella mente, a soli 33 anni, Beatrice morì. Oggi trova pace presso la chiesa mauriziana, dove le spoglie sono state tumulate nel 1867 e qui posto un epitaffio scritto dal Conte Cibrario.
Dopo morte di Beatrice, gli eventi precipitarono, i Francesi entrarono in Vercelli nel 1553 e persino nella chiesa di Sant’Eusebio. I soldati puntavano alla Sindone, fu il provvidenziale intervento del canonico Claudio Costa che sottrasse la Reliquia. Con la Sindone sotto il braccio, il mantello da copertura, padre Claudio se ne tornò a casa. L’assedio terminò in pochi giorni ma gli anni a seguire non furono semplici. Solo dopo la firma della pace di Cateau-Cambresis, nel 1559, le città trovarono pace ed il Duca erede Emanuele Filiberto poté rientrare a Chambery. Due anni dopo vi fece ritorno anche la Sindone. Testa di ferro però (così, affettuosamente chiamato il Duca Emanuele Filiberto) sentiva in cuor suo che non si sarebbe fermato a Chambery per sempre.
Le continue rappresaglie avevano decimato le popolazioni di qua e di là dalle Alpi e chi ancora era vivo si stava ammalando di peste tanto da esser la prima causa di morte in quell’arco di tempo di pace. Le terre di Margherita, le due strade appartenenti ai Savoia, le strade che dall’ultimo villaggio in Alta Moriana, l’Averol, conducono una ad Usseglio e l’altra a Balme, su quei due valichi, erano state poste sentinelle con il compito di non lasciar passare nessuno proveniente dalla Francia, zona appestata né altri che non fossero provvisti di una “bolletta”, un documento ufficiale in cui si dichiarava che il viandante era sano, non proveniva da zone contaminate né portava con sé stracci.
A Milano, un uomo buono e già in odore di santità, il cardinal Carlo Borromeo, fece un voto. Se la peste fosse terminata il più presto possibile, se egli stesso fosse sopravvissuto, sarebbe andato a piedi fino a Chambery a venerare la Santa Sindone.
La peste finì. Il Borromeo si mise in cammino. Senza carrozza né portantina né muli. I pellegrini che lo seguivano indossavano il saio e portavano una zucca ad uso di fiasca. Emanuele Filiberto colse l’occasione per tornare al di qua delle Alpi e venire incontro al Borromeo. Diede disposizioni affinché fosse allestito il castello di Lucento. Partì da Chambery in gran segreto e dopo aver attraversato, munito di “bolletta” la valle di Viù arrivò alle Grange Brione e da lì al castello.
Su un carro rivestito di broccato e velluti, con settecento torce al seguito e cinque vescovi, con il Principe ereditario Carlo Emanuele, nato nelle stanze del palazzo di Lucento, con il Nunzio pontificio, la magistratura dello Stato, il clero e la folla che chiedeva di vedere il volto di Gesù, la Sindone, scortata da Emanuele Filiberto, arrivò alle porte della città, le Porte Palatine e con gesto di grande umiltà, Emanuele Filiberto uscì dalla città di ben cinquecento metri. Stanco, dopo aver camminato tre giorni sotto la pioggia incessante arrivò il cardinal Borromeo. Sul timpano della chiesa dedicata a San Carlo, a Torino è raffigurato l’incontro tra Emanuele Filiberto e il cardinale di Milano. Seguì una pubblica Ostensione di tre giorni, il Borromeo celebrava la Messa e tra i tanti che ricevettero dalle sue mani la Comunione, ci fu Torquato Tasso.
La Sindone non tornò più in Francia ed il cardinal Borromeo tornò altre tre volte, l’ultima volta poco prima di morire, venne a Torino solo per venerare quello che è il segno dell’amore più grande.
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