Massaja Guglielmo (Lorenzo Antonio) è venerabile
Nato a Piovà d'Asti 1809 e morto San Giorgio a Cremano (Napoli) 1889, una vita per la missione
«Mons. Guglielmo Massaja stava raccontando barzellette e motti di spirito, e mi fece meraviglia la sua gaiezza. Parlava in piemontese, intercalando qualche parola in italiano». Un giornalista gli chiede: «Monsignore, come ha fatto a non dimenticare il dialetto natio in 35 anni di missione?». Risponde il grande missionario piemontese: «’Nbon fieul 'd Giandoja a dismentija nen la madre lingua 'd Callianet. Un bravo figlio di Giandoja non dimentica la madre lingua di Callianetto». Papa Francesco, con solide radici subalpine, predilige i grandi evangelizzatori e ha autorizzato il decreto sull’eroicità delle virtù, quindi dal 1° dicembre 2016 Massaja è venerabile.
Otto traversate del Mediterraneo; dodici del Mar Rosso; quattro viaggi in Terra Santa; quattro tentativi di entrare, travestito da mercante, in Etiopia dal Mar Rosso, dal Sudan e dal Golfo di Aden; quattro prigionie; quattro cacciate in esilio; diciotto rischi di morte. Sono alcune avventure dei 35 anni di Etiopia di uno dei più grandi missionari dell’Ottocento, il cappuccino piemontese Guglielmo Massaja.
Penultimo di otto figli, Lorenzo Antonio Massaja nasce l'8 giugno 1809 nella frazione Braja di Piovà d'Asti — ora Piovà Massaia - da una famiglia agiata: il papà Giovanni è un piccolo proprietario agricolo, la mamma Domenica Maria Bertorello è casalinga. Trascorre l’adolescenza sotto la guida del fratello don Guglielmo, poi parroco di Pralormo – per riconoscenza da cappuccino ne assumerà il nome – e frequenta per due anni (1824-1826) il Collegio Reale di Asti. Ha un sogno missionario. Al papà, che lo sorprende pensieroso sui campi, risponde: «Sogno orizzonti lontani». Bussa al convento dei Cappuccini di Madonna di Campagna a Torino dove il 6 settembre 1826 indossa il saio francescano.
Prete dal 16 giugno1832 aVercelli, nel biennio 1834-1836 è cappellano dell’Ospedale Mauriziano di Torino, dove apprende i rudimenti della medicina e della chirurgia e assiste alle infiammate discussioni sul vaccino contro il vaiolo. Entra in contatto con Casa Savoia; è confessore e consigliere di Giuseppe Benedetto Cottolengo, della marchesa Giulia di Barolo e del segretario Silvio Pellico. Re Carlo Alberto lo sceglie come direttore spirituale dei due figli, Ferdinando e Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia.
Padre Guglielmo nel decennio 1836-1846 insegna filosofia e teologia nel convento di Moncalieri-Testona ed è incaricato della formazione dei giovani cappuccini. Papa Gregorio XVI, su suggerimento dell'esploratore Antonio D'Abbadie, nel 1846 erige il vicariato apostolico dei Galla in Etiopia e lo affida ai Cappuccini, chiedendo come missionario un «padre già provato e maturo». Il 24 maggio 1846 Massaja è consacrato vescovo vicario apostolico dei Galla. Il 4 giugno salpa da Civitavecchia. Per raggiungere l'Alta Abissinia impiega sei anni: arriva il 21 novembre 1852 travestito da mercante e attraversando il Nilo Azzurro. L'origine contadina gli aveva insegnato la fatica e la pazienza dei tempi lunghi. Comincia a sanare i corpi per arrivare alle anime. Adotta uno stile missionario originale: studia la lingua e i costumi della gente e li traduce. Medico, architetto, geografo, etnologo, porta il Vangelo alla gente e la gente al Vangelo. Insegnando arti e mestieri. Fonda villaggi: l’attuale Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, è il naturale incremento delle poche capanne di «Finfinnì» costruite sull’altipiano dello Scioa. Forma il clero locale in un Seminario ambulante. Valorizza i laici e le donne.
Massaja è fedele al Vangelo e all'uomo. Un giorno riesce persino a fare un trapianto d'organo su un malato. Durante l’epidemia di vaiolo si prodiga con grande dedizione, iniettando il vaccino. Cura servendosi di un rudimentale ago che umetta con la saliva: tutti credono che la vera medicina sia la sua saliva. Il capo villaggio non ha dubbi: «Quest'uomo è stato mandato da Dio e persino il suo sputo è d'oro».
Esiliato definitivamente dall'imperatore abissino Joannes IV, Massaja torna in Italia e Papa Leone XIII gli ordina di scrivere le sue memorie. Impiega cinque anni, lavorando giorno e notte ai 12 volumi de «I miei 35 anni di missione dell'Alta Etiopia».
Conterraneo di grandissimi personaggi della santità subalpina. San Giuseppe Cafasso (1811-1860), formatore di sacerdoti e consolatore dei condannati a morte. San Giovanni Bosco (1815-1888), apostolo della gioventù, è il piemontese più noto al mondo grazie alla Famiglia Salesiana, una trentina di Istituti religioni che operano in 120 Paesi. Santa Maria Domenica Mazzarello (1837-1881), nata a Mornese (Alessandria), fondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice e morta a Nizza Monferrato (Asti). San Domenico Savio (1842-1857) ragazzo-modello dell’Oratorio: di Valdocco. Beato Giuseppe Allamano (1851-1926), nipote per parte di mamma del Cafasso, fonda nel 1901 i Missionari e nel 1910 le Missionarie della Consolata. Un uomo che ripete spesso: «Noi ‘d Castelneuv soma ativ, laborios, intraprendent. Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti».
Massaja, religioso cappuccino, è di 42 anni più vecchio dell'Allamano, sacerdote diocesano. Si sono incontrati solo due volte, ma l'influsso del Massaja sull'Allamano è forte. Il primo incontro nel giugno 1864, quando Giuseppe frequenta l'Oratorio di don Bosco. Incontro che incide profondamente nel suo animo giovanile, se nel 1916, ben 52 anni dopo, lo ricorda ancora: «Ho visto il cardinale Massaja quando era vicario apostolico dei Galla, venire all'Oratorio, ricevuto con grande onore». L’altro incontro avviene a Roma il 29 dicembre 1887. Allamano annota sul diario: «Visita a mons. Iacobini, segretario di Propaganda, cardinale Simeoni prefetto e mons. Massaja». Allamano assicura di «avere letto con vera passione» la monumentale opera «I miei 35 anni di missione».
Massaja, cardinale dal 1884, muore il 6 agosto 1889 a san Giorgio a Cremano (Napoli). La causa di beatificazione, introdotta nel 1914, si articola in quattro processi: Asti, Torino, Frascati, Napoli e un quinto in Etiopia i cui atti sono andati persi. Forse questo spiega perché ci sono voluti 102 anni, dal 1914 al 2016, per dichiararlo venerabile.
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