Il cammino ecumenico le sfide del tempo presente
Una riflessione su comefare diventare vita e percorso di unità il cammino delle comunità
L’irreversibile processo di trasformazione della società occidentale, che anche in Europa sta rapidamente evolvendo verso modelli sociali di tipo multiculturale, comporta nel breve termine anche per le chiese cristiane significativi cambiamenti di prospettiva; ne consegue quindi la necessità di ripensare strategie e priorità. In questo contesto, è necessario rimettere in discussione anche la strategia ecumenica delle chiese; una strategia che finora è stata prevalentemente improntata alla valorizzazione ed alla tutela delle specificità di ciascuno, radicalizzandole fino a porre in secondo piano le comuni fonti cristiane. Un disgelo, segnato dal formale rispetto di rigidi criteri di rappresentatività, caratterizza il clima delle Settimane di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, durante le quali la competitività e la polemica lasciano spazio ad educati esercizi di reciproca accettazione, facendo comunque molta attenzione ad evitare qualsiasi sconfinamento nei propri territori. La sola preghiera comune, fondamentale per rompere il ghiaccio fino a qualche decennio fa, delegando ogni cosa all’azione dello Spirito continua a non «compromettere» nessuno, come accade assumendosi impegni reciproci, oppure comuni.
Le nuove sfide poste dal tempo presente comportano oggi la necessità di ricollocare in primo piano la comune fede in Gesù, e sullo sfondo le diverse interpretazioni delle Scritture e le tradizioni che ci differenziano, in una sostanziale inversione dell’abituale rapporto figura-sfondo. Non si tratta di una questione di poco conto, in quanto mette in gioco - insieme alla strategia ecumenica sinora adottata, sovente più preoccupata di presidiare i confini che di aprire varchi per favorire l’unità con gli «altri» - ciò su cui ciascuna persona e ciascuna chiesa fonda la propria identità religiosa; un’identità tuttora spezzettata in denominazioni diverse, e che è fondata sulla specifica chiesa piuttosto che sulla comune adesione al cristianesimo, sancita per tutti, ed allo stesso modo, dallo stesso battesimo. E’ solo riscoprendo e rinsaldando i principi fondamentali del cristianesimo, che sarà possibile evitare il rischio di una sua progressiva confusione con un corpus, per quanto importante, di principi etici, o - in omaggio ad un approccio «politicamente corretto» - addirittura con un buonismo da chiunque condivisibile, pur se con il nobile intento di non escludere nessuno.
La nostra identità di cristiani è tuttora un’identità spezzettata fra chiese fino ad oggi in competizione fra loro, ed il rischio è che il desiderio generoso di aprirsi ai tanti, portatori di fedi diverse, che bussano alle nostre porte e che anima tutte le chiese, insieme all’urgenza di farlo, ci faccia perdere di vista la necessità, almeno altrettanto urgente, di riscoprire le nostre radici cristiane comuni, esplicitandole e riconfermandoci reciprocamente in esse; neppure la necessità di coltivare e sviluppare il dialogo interreligioso deve farci perdere di vista la questione cruciale dell’unità dei cristiani, né può riassorbirla o farla passare in secondo piano.
Occorre ribadire, esplicitandolo, che ciò che come cristiani ci caratterizza anche rispetto alle altre religioni monoteiste è riconoscere in Gesù il figlio di Dio, e nel Primo e nel Secondo Testamento il fondamento della nostra fede; si tratta di uno specifico che non ci è lecito mettere fra parentesi, neppure con le migliori intenzioni, tenendo anche conto che è solo riconoscendoci in questa nostra comune identità che possiamo anche aprirci nel modo più utile e costruttivo al dialogo con le altre fedi. L’integrazione non è il risultato di un reciproco «sbiadimento» ottenuto semplicemente mescolando fra loro colori diversi, ma di un processo di apertura nel quale ciascuno concorra, con la propria identità, a disegnare un armonico insieme. Non si tratta infatti di simulare un’uniformità - nemmeno auspicabile - che comunque non c’è, ma di vedere nelle diversità, grazie ai carismi ed ai punti di forza che ciascuna chiesa possiede (Corinzi, 1), l’opportunità di un reale arricchimento reciproco, o nei casi in cui ciò non è ancora possibile, occorre considerarle alla stregua di criticità di cui é necessario tenere conto, ma non ci è più lecito vedere nelle diversità degli ostacoli insormontabili che motivano la divisione ed impediscono la riconciliazione di quanti riconoscono in Gesù il figlio di Dio, e nella sua Parola il suo messaggio per noi.
Questo pensiero è oggi condiviso anche da papa Francesco, che in più circostanze - dalla visita ai pentecostali della riconciliazione a Caserta del luglio 2014, a quella alla chiesa valdese a Torino del giugno 2015 e poi ai luterani a Roma nello scorso ottobre – ha fatto propri i contenuti del modello ecumenico dell’unità nella diversità: un modello da tempo assunto dal CEC (Consiglio Ecumenico delle Chiese), ritenendolo il più appropriato per la costruzione dell’unità. Questo modello, proposto anni fa dall’evangelico Oscar Cullmann, è oggi ampiamente ed autorevolmente condiviso, e può perciò essere più realisticamente perseguito, consentendoci così di compiere un passo decisivo nel percorso ecumenico, facendolo evolvere da una generica aspirazione all’unità, ad una prospettiva concreta. La grave crisi umanitaria ed ecologica che stiamo attraversando racchiude in sé anche una grande opportunità, che sta a tutti noi cogliere, perché può anche rappresentare un’ulteriore motivazione per rinsaldare i rapporti fra le chiese cristiane, stimolandoci ad investire l’energia e la creatività necessarie per muoverci nella nuova direzione; ma per farlo, è necessario andare al di là delle ritualità istituzionali e delle iniziative culturali affidate agli ‘esperti’, sollecitando la base delle nostre chiese a promuovere e realizzare in modo fraterno concrete esperienze ed attività comuni, stimolandola con una pastorale che punti lo sguardo anche al di là del recinto della propria chiesa.
La situazione di criticità sociale e sistemica che stiamo vivendo può così trasformarsi in un’opportunità da cogliere se, mettendo da parte i particolarismi di ognuno, tralasceremo da un lato – come sembra che si stia facendo – il programma di un ‘ecumenismo a stadi’ (che peraltro è da secoli pressoché immobile al primo stadio), e dall’altro il programma di un «ecumenismo evangelico», altrettanto «a stadi» anche se con partners diversi, ma bloccato dalle divergenze esistenti in ambito etico e dalle differenti visioni sociali ed ecclesiali. Su molte questioni le diversità sono ancora tante, ma non è più giustificato continuare ancora a fare della Parola un motivo di divisione; la nostra casa comune è la chiesa cristiana universale che tutti siamo chiamati ad abitare, e per la quale tutti preghiamo nella nostra confessione di fede, ed è difficile credere che le questioni che ancora ci dividono possano rappresentare un serio impedimento per la realizzazione di ciò che chiedeva Gesù quando, rivolgendosi al Padre, lo pregava affinché fossimo tutti «una cosa sola».
Ecumenismo e dialogo
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