Mons. Nosiglia: la speranza accompagni il Natale di Gesù oltre i drammi del tempo presente
La riflessione di Natale dell'Arcivescovo di Torino
Nell'incontro con i giornalisti per Natale le considerazione del pastore della Chiesa di Torino vedi anche sito diocesano
La lettera di Natale: «Ecco, sto alla porta e busso»
Racconta il Vangelo che non c’era posto per Giuseppe e Maria nelle case di Betlemme e il Bambino Gesù ha dovuto nascere in una stalla fuori della città. Mi chiedo – e invito anche voi, cari amici, a chiedervi: se oggi Gesù ritornasse nella nostra città, troverebbe una casa, una famiglia, una parrocchia, una comunità religiosa o civile disponibile ad aprirgli la porta e ad accoglierlo? Se penso a tante persone senza dimora che dormono per strada o in dormitori comuni anonimi e di pura assistenza, a famiglie sfrattate perché hanno perso il lavoro e non riescono più a pagare l’affitto, a tanti immigrati e rifugiati, compresi minori o donne sole, mi verrebbe da dire che forse nemmeno oggi Gesù troverebbe il calore di una casa e di gente che con gioia apre le porte per accoglierlo.
Sono certo, comunque, che Gesù a Natale viene accolto nella nostra città, se non nelle case o nei luoghi dove ci sono tante luci, alberi sfavillanti, gente indaffarata alla ricerca dell’ultimo regalo o delle compre per il pranzo di Natale e così via, trova la sua grotta o capanna “fuori della città che conta”, nel cuore di tanta gente che dona il proprio tempo e risorse ai più poveri e nei “luoghi” dove vivono gli ultimi e gli scartati... Facendo il presepe nelle nostre case o chiese, ci accorgiamo che attorno alla grotta di Betlemme dobbiamo metterci i pastori, gente semplice e povera, non i ricchi, potenti e nobili e le persone che contano nel mondo. Pertanto, credo che anche oggi siano proprio loro – i poveri, malati ed emarginati – coloro che possono insegnarci a riconoscere e ad accogliere il Signore e Salvatore.
Per questo, nella Lettera di Natale rinnovo l’impegno per tutti di accogliere nella propria casa una persona o una famiglia bisognose, per un pasto insieme e per donargli, almeno per un giorno, la gioia di sperimentare il calore di una famiglia. La Lettera vuole suscitare questa riflessione e autocritica nella coscienza di ciascuno che si lasci interrogare dalla condizione di vita del suo prossimo. Da qui il titolo: «Ecco, so alla porta e busso». Lo dice il Signore: «Se tu mi aprirai, verrò con te e ceneremo insieme» (cfr. Ap 3,20). Sì, il Signore – con i poveri – sta alla porta del nostro cuore e delle nostre case, ma non entra, se noi non gli apriamo. Solo allora gusteremo veramente la gioia della sua venuta.
Uno sguardo sulla Città e i territori della diocesi
Desidero ora soffermarmi sulla situazione sociale e sulle prospettive positive in atto nella nostra Città metropolitana, per farvi fronte.
[1] Il 2016 non ha ancora segnato un cambio di tendenza rispetto al processo di impoverimento che ha visto colpita una larga fascia della nostra Città. Continua ad emergere il bisogno sommerso che ha portato singoli e famiglie in situazione di fragilità estrema. Non è questo il luogo per offrire numeri generali di un fenomeno che tutti facciamo fatica a definire in modo omogeneo: i poveri sono un pungolo continuo per tutti noi. Il solo centro di ascolto della Caritas diocesana – meglio conosciuto come “Le Due Tuniche” – negli undici mesi scorsi ha incontrato circa 10.000 persone. Otto anni fa non arrivava a mille all’anno!… A questo si aggiungano le decine di migliaia di famiglie e persone che vengono accolte e accompagnate nelle loro difficoltà da ciascuno degli oltre 150 Centri di ascolto della Caritas diocesana, della S. Vincenzo e di altre realtà religiose o laiche che presidiano i vari territori. Poi, si aggiungono ancora, oltre ai Servizi sociali comunali e regionali, il Cottolengo, l’Ufficio Pio, l’Opera Barolo, il Sermig e Libera, le Fondazioni, numerose realtà laiche o di associazioni e Istituti religiosi attivi nel campo della solidarietà. Una rete capillare, basata per lo più sul volontariato o su operatori qualificati, che fa della nostra Città metropolitana una realtà fra le più attrezzate e generose su questo piano; ma anche una delle più provate dalla crisi ancora in atto, dove l’estendersi delle povertà a tutti i livelli ha raggiunto una larghissima parte della popolazione.
[2] Analizzando quella finestra sulle periferie esistenziali – perché è lo strumento privilegiato dell’attenzione della Chiesa diocesana ai poveri –, possiamo intuire qualcosa della situazione del nostro territorio.
[2.1] Anzitutto, il fatto che sta crescendo la povertà dei minori e dei giovanissimi: il 30% delle famiglie ascoltate ha figli di quelle età. D’altronde, chi si rivolge alla nostra Chiesa – anche scrivendo all’Arcivescovo – è per lo più tra i 35 e i 60 anni di età, quindi nel pieno dei compiti genitoriali. Minori in difficoltà per il cibo, spesso inadeguato, per i carichi scolastici (quanti ragazzi non riescono a partecipare alle attività extrascolastiche a pagamento!), per le necessità di cure sanitarie, soprattutto ortodontiche ed odontoiatriche, per la solitudine conseguente alla separazione dei genitori. Quasi la metà dei nuclei familiari che sono venuti allo scoperto è composto da quattro membri, e il 30% viene da storie di separazione o divorzio. In due anni, nelle due “Case di Nonno Mario” ideate da Caritas Torino, sono stati accolti 180 padri separati che così hanno potuto assolvere, seppur per brevi periodi, il loro ruolo genitoriale.
[2.2] La casa e i problemi relativi sono la seconda evidenza della povertà torinese di questo 2016. Sono la voce di spesa che più preoccupa i poveri di lunga durata e i cosiddetti “nuovi poveri”. La morosità incolpevole sembra aumentare, complice la mancanza prolungata di possibilità reali di lavoro. I due progetti diocesani, organizzati proprio per accogliere temporaneamente i nuclei sottoposti a sfratto – Sis.Te.R. e D.Or.Ho, che insieme cubano 17 alloggi e 40 posti in struttura residenziale –, in due anni hanno ospitato 700 persone e, grazie ad una proficua collaborazione con Comune di Torino e ATC Torino, c’è possibilità di sbocchi verso la casa popolare. Ma quanti sono rimasti fuori! Molte famiglie stanno trascorrendo l’inverno senza riscaldamento. Sovente sono presenti grossi debiti pregressi e le compagnie di erogazione gas o luce non accettano di riallacciare la fornitura se non vengono sanati integralmente.
Ciò che preoccupa molto il mio cuore è il risvolto interiore che queste situazioni producono. Una signora poco più che cinquantenne mi diceva di sentirsi «malata di mal del vivere», perché i problemi legati al lavoro e alla casa la fanno scivolare nella vergogna e «i debiti ti tolgono la dignità e la voglia di vivere».
[2.3] Poi c’è la continua presenza dei fratelli caduti nelle forme estreme della povertà – costretti ad abbandonare casa, famiglia, affetti, occupazioni – e finiti sulla strada. numeri abbastanza stabili da un paio di anni a questa parte, ma qualità negativa assai cresciuta. Sempre meno clochard e sempre più persone cadute in povertà grave a seguito di fallimenti nel lavoro e negli affetti. Persone con buone resilienze ma con scarse opportunità per metterle in pratica. Li incontro andando a “La Sosta”, dove ormai sono oltre 1.800 le presenze registrate, o nelle mense diurne e serali, dove incontro anche famiglie con tanto di bimbi al seguito. Per loro non serve solo azione di emergenza: servono occasioni di sostegno alla dignità. Ed è per questo che ogni volta che è possibile cerchiamo di organizzare con loro qualche evento culturale, ma anche attività che possono aiutare a non perdere le abilità lavorative, come la casa AgriSis.Te.R., in cui sei persone senza dimora stanno impiantando una piccola produzione agricola, o come il laboratorio “Fuori Campo”, che da dicembre realizza anche una pagina mensile sul nostro giornale diocesano.
[2.4] Ma la questione di fondo resta ancora la mancanza del lavoro. In una lettera, che ho ricevuto qualche settimana, fa ho letto: «Prima la mia vita era scandita dai ritmi del lavoro, ora mi trascino per la casa senza fare nulla, rimango in pigiama e non ho più voglia di fare nulla. Tengo le tapparelle chiuse il più possibile e sto a letto, così sembra sempre notte, perché se mi alzo, ora che non lavoro, che faccio?». È una questione vasta, che abbiamo anche messo al cuore del percorso dell’Agorà del Sociale, perché attiene alla dignità delle persone. La Fondazione “Don Mario Operti”, l’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro, l’Ufficio Migranti, la Caritas e l’Ufficio per la pastorale della salute stanno lavorando per creare opportunità. Penso – per stare solo nel mondo ecclesiale – ai tirocini lavorativi, al largo utilizzo del lavoro accessorio in molte parrocchie della diocesi, ai percorsi di orientamento dei giovani fatti dal Servizio per il lavoro, a progetti come “Fa Bene”, sostenuto dal “Comitato S-Nodi”, che sta attivando azioni di sistema come possibile struttura di lotta alla povertà.
Ma il problema è davvero di tipo sistemico e necessita di un approccio di questo tipo, più integrato e decisamente posto al centro delle attenzioni sia pubbliche che economiche, che del privato e della società. Il tenore di tante lettere che ricevo è ben sintetizzato dalla battuta finale scritta in una di esse: «La mia non è una richiesta di denaro, ma una supplica, affinché mi possa aiutare a trovare lavoro, non importa se il più umile di questo mondo. L’importante è che mi permetta di sostenere la mia famiglia nei bisogni più essenziali».
[2.5] Infine, mi sembra importante sottolineare alcuni filoni di particolare disagio che vedo crescere: la povertà sanitaria, che limita davvero molto l’accesso alle cure; la solitudine di una parte degli anziani, soprattutto in alcune aree del centro cittadino e delle antiche barriere industriali; le conseguenze della dipendenza da gioco e da alcol e droghe, che coinvolge adulti e non pochi giovani e minori anche attraverso il web; l’estrema precarizzazione dei giovani provenienti da nuclei familiari in difficoltà, anche solo relativa; infine, il cancro della corruzione, che sta diventando un costume sociale per molti del tutto “normale”.
Immigrati e rifugiati
I cittadini e le cittadine stranieri presenti sul territorio della Città metropolitana di Torino al 31 dicembre 2015 erano complessivamente 221.961 (118.717 femmine; 103.244 maschi), pari al 9,7% della popolazione residente. Per la prima volta, dall’inizio dell’attuale processo migratorio, si è registrata una lieve diminuzione del flusso: rispetto all’anno precedente la popolazione straniera è diminuita di 783 unità.
[1] I cittadini e le cittadine straniere che risiedono sul nostro territorio provengono da 162 diverse nazioni; di questi, il 50% arriva da paesi appartenenti all’Unione Europea, il rimanente 50% dal resto del mondo. I due gruppi, UE ed Extra UE, presentano una distribuzione di genere leggermente differente: mentre tra quelli del primo gruppo le donne sono il 56%, tra i cittadini extra UE i due generi sono presenzi nelle medesime proporzioni (50%). La Romania è l’etnia più numerosa e rappresenta il 92% dei cittadini comunitari e il 46% del totale dei migranti. La nazionalità rumena, oltre a essere quella più numerosa, è anche la più diffusa sul territorio. Alla nazionalità rumena segue quella marocchina, presenza stabile nel tempo; successivamente, si collocano quella albanese, poi la peruviana (dove sono più presenti le donne), quella cinese (con un bilanciamento tra i due generi), quindi la moldava e la nigeriana (tradizionalmente con una forte presenza femminile), l’egiziana (con un’importante comunità che risiede nel capoluogo) e, infine, la nazionalità filippina e quella brasiliana, anche queste ultime storicamente sempre più femminili.
Il sistema di accoglienza italiano produce sui nostri territori fenomeni difficili da gestire. Soprattutto nelle grandi città, come per esempio Torino, dove si concentrano grandi quantità di persone a cui è stato riconosciuto un titolo di protezione, ma che nel periodo di accoglienza non hanno raggiunto l’autonomia economica e abitativa. Molte strutture pubbliche o private (vedi Ex-Moi), non utilizzate, sono diventate le dimore di questa fetta di popolazione, segno tangibile e visibile di un sistema che non funziona ancora. Le istituzioni pubbliche locali si trovano dunque a governare fenomeni che toccano più aspetti, da quello della sicurezza e della sua percezione da parte dei cittadini, a quello del rispetto dei diritti fondamentali per migliaia di persone a cui l’Italia ha riconosciuto il diritto di restare. Ma dove?
[2] Il tema del lavoro e della casa sono urgenti, come è urgente governare i fenomeni sociali conseguenti all’esclusione sociale e lavorativa dei rifugiati sui nostri territori. La diocesi di Torino è impegnata a collaborare con la Città di Torino e le diverse realtà coinvolte a trovare soluzioni possibili alle emergenze cittadine.
Ad aiutare nella sensibilizzazione delle nostre comunità cattoliche al tema dell’accoglienza,ha contribuito sia il mio appello e quello di Papa Francesco nel discorso dell’Angelus il 6 settembre 2015. A rispondere all’appello lanciato alle parrocchie di “aprire le porte” per dare concretezza alle parole del Vangelo, nella Diocesi di Torino sono stati in tanti. Oggi sono oltre il migliaio i richiedenti asilo e rifugiati ospitati nelle strutture della Diocesi. Tra questi in particolare oltre 400 sono i rifugiati ospitati gratuitamente, da famiglie e parrocchie singole, Unità pastorali, congregazioni religiose, dal Seminario diocesano, Episcopio e da locali della Diocesi di Torino.A questi si aggiungono realtà non diocesane ma di impostazione cristiana come il Sermig e diverse associazioni ecclesiali. Significativo è il progetto che accoglie 80 persone nell’ex pensionato dei Missionari della Madonna di La Salette, una struttura occupata da rifugiati qualche anno fa, che la Diocesi ha ristrutturato a proprie spese nell’ambito di un percorso complesso che vede lavorare insieme più soggetti del privato sociale e i rifugiati stessi. Altre 40 persone sono ospitate in alloggi messi a disposizione dal Comune di Torino in un progetto gestito dalla Fondazione Operti.
[3] Punti di forza su cui possiamo contare:
- Il numero di parrocchie, Unità pastorali, congregazioni e associazioni che stanno crescendo e danno la loro disponibilità ad accogliere gli “ultimi”, persone con titolo di protezione internazionali uscite dai percorsi di accoglienza senza aver raggiunto l’autonomia economica e abitativa;
- il numero crescente delle famiglie che hanno aperto la loro porta per ospitare rifugiati nel proprio nucleo;
- la messa a disposizione da parte delle congregazioni religiose del territorio diocesano di strutture per l’accoglienza di richiedenti asilo;
- lo sforzo di tanti gruppi di volontariato che ogni giorno si spendono con il loro amore, la loro passione e la messa in campo delle loro competenze per dare supporto alle accoglienze di minori, di donne, di ragazzi. Il loro aiuto è fondamentale per fare dell’accoglienza un’occasione di sensibilizzazione e crescita della cittadinanza, per arricchire il percorso dei singoli beneficiari e dare loro occasioni di inserimento sociale, di conoscenza della cultura locale e dei servizi del territorio;
- apertura a ottobre del progetto “Home”, comunità di prima accoglienza per MSNA (minori stranieri non accompagnati), in risposta al bando del Ministero dell’Interno, nata dalla sinergia tra la diocesi di Torino e il privato sociale, per dare una risposta concreta di accoglienza ai tanti minori che giungono soli sul nostro territorio. Il progetto, attivato a ottobre 2016, coinvolge attualmente 42 minori; 24 di loro sono ospitati in una struttura della diocesi a San Mauro Torinese;
- l’impegno in atto da parte della diocesi, delle parrocchie, degli Istituti religiosi, delle associazioni per far fronte all’emergenza freddo.
[4] Criticità:
- L’alto numero di “diniegati”, con conseguente crescita del numero di persone irregolari sul nostro territorio. È questo un problema molto serio e doloroso (ho presente tanti giovani immigrati che giunti in Italia da Paesi poveri sono venuti a cercare una vita e un futuro migliore, hanno subito violenze e soprusi, rischiando la vita nel viaggio, sono stati accolti dalle nostre strutture ecclesiali, hanno imparato la lingua, stanno studiando o vanno a lavorare, si impegnano nel volontariato e hanno percorso un cammino di integrazione positivo: eppure, si vedono rifiutato l’asilo, per cui debbono tornare al loro Paese). Non giudico i motivi di tale diniego, ma credo che tra i criteri da tenere in considerazione per concedere l’asilo dovrebbero contare anche la serietà del percorso che hanno fatto e la loro buona volontà nel cercare di inserirsi nel nostro Paese;
- un sistema di accoglienza dei richiedenti asilo ancora in emergenza e non unificato, che fa fatica ad attuare in modo uniforme percorsi veramente finalizzati all’inclusione sociale, lavorativa e abitativa le persone accolte;
- la complicata situazione e gestione delle quattro palazzine dell’Ex-Moi. La diocesi si sta adoperando perché la soluzione all’occupazione non diventi solo un’operazione di sgombero degli edifici;
- il fenomeno dell’arrivo sul territorio italiano e locale di minori stranieri non accompagnati: nel 2015, sono giunti in Italia 12.000 MSNA, di 6.000 dei quali si sono perse le tracce; dal 1° gennaio 2016 ad oggi ne sono arrivati 20.000 (si veda in proposito il comunicato di ieri per la mia visita a S. Mauro);
- la situazione di degrado dei campi Rom e la mancanza di progetti a loro dedicati (tornerò in questi giorni a visitarne uno);
- la mancanza di tutele per le donne vittime di tratta (comprese molte minorenni): il Sistema nazionale anti-tratta, messo in atto dagli enti del pubblico e del privato sociale che da anni operano nei diversi territori, è una realtà la cui sopravvivenza è ancora subordinata a bandi di finanziamento annuali (che per ben quattro anni sono mancati). Nell’ultimo bando emanato dal Dipartimento per le Pari opportunità per il finanziamento dei progetti di assistenza a favore delle vittime di tratta, sono rimaste escluse 5 regioni, tra cui il Piemonte, che non potranno usufruire, sul loro territorio, di servizi di enti specializzati nell’assistenza alle vittime della tratta degli esseri umani, fenomeno in preoccupante espansione anche in seguito all’intensificarsi dei flussi migratori;
- la paura dell’altro: quando i fenomeni non sono gestiti adeguatamente, aumentano nella comunità cittadina il senso di insicurezza e la paura.
C’è una speranza in tutto ciò?
Sì: credo che la rassegnazione che incombeva alcuni mesi fa si stia diradando e, malgrado tutte queste criticità, si stia attivando in molti la volontà di una ripresa di fiducia e di impegno. Non dobbiamo lasciar cadere questo sforzo di reagire e offrire opportunità e sostegno sia morale e spirituale che sociale ed economico a tanti che desiderano farsi protagonisti del loro domani. Non da soli, però, perché non ce la farebbero. Necessitano di una rete di promozione e di credito, che dovrebbe essere quella definita molto bene nell’Agorà. Viviamo dunque uno snodo decisivo, che è come un crinale: se non vogliamo aggravare talmente la situazione di separatezza tra le “due città”, rendendola permanente e irreversibile, occorre reagire con lucidità e unendo tutte le forze in campo.
È giunto il tempo di trovare vie concrete di convergenza su progetti snelli e condivisi, capillari sul territorio e non massificanti, mettendo in campo il grande potenziale di qualificazioni e di risorse di cui dispone il tessuto industriale, finanziario e professionale, culturale e sociale del nostro territorio, oltre al volontariato, vero motore di progresso su cui si può contare.
Ma dove iniziare dunque a dare qualche segnale concreto che si sta perseguendo questo obiettivo? Dalle periferie. Ho fatto la visita pastorale in alcune delle periferie della Città e continuerò a farne ancora nei prossimi mesi. Insieme alle comunità parrocchiali, che in modo capillare si investono dei problemi concreti della gente sul territorio, ho incontrato realtà civili del volontariato e delle circoscrizioni, il mondo della scuola, delle famiglie, delle realtà associative laiche e religiose che operano nel sociale. Mi ci è voluto tempo – almeno un mese per unità pastorale – e dunque un periodo utile per rendermi conto in modo più approfondito e non solo occasionale della situazione. Da questo “viaggio” ho tratto alcune convinzioni.
[1] Occorre rovesciare le linee strategiche di fondo su cui si muovono spesso i programmi e le risorse messe in campo per la nostra Città e puntare più decisamente su vie che privilegino le periferie. Occorre definire investimenti mirati e puntali, che permettano alla popolazione che vi abita un concreto e palpabile cambiamento di rotta, da cui emerga con evidenza che i loro problemi e necessità non solo sono tenuti in considerazione, ma affrontati insieme sul territorio. I cittadini devono essere messi in grado di essere protagonisti e attori di ogni progetto programmato, ascoltandoli e coinvolgendoli.
[2] Per cui, il primo passo da fare è incontrare, conoscere dal vivo, parlare e vedere di persona la realtà del loro vissuto nel quartiere. Questo esige tempo da investire e non solo sporadiche visite occasionali, per lo più preavvisate per tempo per predisporre le cose meglio che si può. È necessario che la popolazione sperimenti dal vivo l’attiva e permanente presenza delle istituzioni sul territorio, insieme a tutte le componenti del terzo settore e del volontariato sociale.
[3] In secondo luogo, occorre favorire il decentramento sia delle risorse disponibili che delle progettualità cittadine. I programmi fatti dal Centro a tavolino restano spesso sulla carta o vengono sottoposti a una filiera lunga e compressa da tanta burocrazia, che rallenta o addirittura ostacola la loro realizzazione, per cui non potranno mai raggiungere un risultato adeguato alle concrete necessità della gente.
[4] Ritengo infine che occorra agire molto sul piano della formazione e della cultura, perché questa è una via che ridà dignità alle persone e ai territori e apre potenzialità impensabili di sviluppo, anche in situazioni ritenute troppo povere per apprezzarne l’importanza.
In conclusione
La via maestra da percorrere per affrontare tutte queste esigenze e problemi sta nel porre in atto in modo permanente il percorso dell’Agorà (vedi conclusioni dell’assemblea di novembre 2016): unire le forze, valorizzando le tante realtà religiose, civili, economiche, finanziarie, culturali e sociali che operano nel tessuto concreto della nostra Città e territorio, riconoscendole come fattore indispensabile di promozione umana integrale delle persone e famiglie e non ponendo troppi vincoli al loro impegno generoso di servire i poveri. Non lasciamo solo nessuno, ma favoriamo una rete di supporto collettivo che investa tutti, dalle istituzioni alla Chiesa e alle altre componenti religiose, dalle associazioni ad ogni cittadino.
Torino è oggi un laboratorio che può diventare un esempio virtuoso e un traino per il nostro Paese, perché possiede un patrimonio di esperienza e competenze, di persone e realtà associative numerose e impegnate sul territorio. Occorre dunque favorire il programmare insieme e lavorare insieme su casi mirati che, se risolti, diventerebbero modello anche per molti altri nei vari ambienti.
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