Centri Commerciali: 160 mila metri quadri in provincia. Ma c’è mercato per tutti?
Shopville – nell’area torinese continuano a moltiplicarsi: da Nichelino a Settimo a Caselle
Per una volta dimentichiamo i dibattiti al vetriolo sul proliferare di centri commerciali nel capoluogo e dedichiamoci alla corona di comuni che circondano Torino, l’hinterland che i sociologi e i giornali – dagli anni ‘60 agli ‘80 del secolo scorso – amavano studiare.
Allora ci si interrogava sugli effetti dell’industrializzazione prima e della crisi poi, fino ad arrivare al nuovo secolo e alle conseguenze della de-industrializzazione: capannoni e fabbriche in disarmo in cerca di nuova destinazione, ma anche terreni agricoli ormai abbandonati.
Dal 2005 al 2016 in Provincia di Torino si sono registrate aperture di centri commerciali per 157.291 mq: l’equivalente di 18 campi da calcio di serie A. Sottraendo quelli costruiti a Torino – 26.425 mq – rimane il ragguardevole dato di 130.866 metri quadri. Senza contare il preesistente e quanto è stato edificato, o lo sarà, tra il 2017 e il 2018.
I numeri che si leggono nella «Serie storica dinamica - Centri commerciali grandi strutture», pubblicati da Sistema Piemonte, il portale della Regione che raccoglie dati statistici, sono illuminanti. Tra i Comuni che hanno autorizzato le maggiori aperture ci sono Beinasco, Carmagnola, Caselle Torinese, Chieri, Collegno, Ivrea, La Loggia, Moncalieri, Pinerolo, Rivalta e Settimo Torinese, con la maglia rosa garantita da 21.666 metri quadri.
La classifica però è in movimento: Settimo ha inaugurato quest’anno il «Torino Outlet Village» ed entro il 2018 raddoppierà «Settimo Cielo» fino ad arrivare a 69 mila mq, Vinovo – fino al 2016 silente – ha visto l’apertura, condivisa con Nichelino, di Mondo Juve, più di 80 mila mq nella cintura Sud di Torino; sempre Nichelino, attorno allo storico Carrefour, a fine ottobre ha benedetto «I Viali», 42 mila mq di superficie.
La corsa non è finita: nel 2018 comincerà la costruzione a Caselle Torinese, su un’area di 300 mila metri quadrati, di un centro da 120 mila che ospiterà sia commercio sia imprese di intrattenimento, per iniziativa del gruppo Aedes. Un’operazione che a regime, dal 2021, dovrebbe garantire ricavi per 70 milioni l’anno alla società guidata da Carlo Puri Negri.
Molte le domande che sorgono spontanee: ci sarà mercato per tutti? Quanti nuovi posti di lavoro saranno garantiti e di che tipo? Come sarà gestita la viabilità? Quale impatto hanno questi giganti del commercio sui piccoli negozi dei singoli comuni? Qual è l’impatto ambientale in termini di consumo del suolo, emissioni di gas serra, produzione di rifiuti?
Ancora: il modello del centro commerciale risponde alle aspettative dei consumatori del nuovo millennio? In una società come quella italiana, dove gli over 65 si apprestano a diventare maggioranza e nella quale i millenials (i nati dal 1989 in poi) privilegiano stili di vita e di consumo agli antipodi, ha senso finanziare progetti di questo tipo? In questo caso la risposta apparirebbe scontata: se qualcuno investe il ritorno deve essere garantito. E se, invece, prevalesse la scelta dei pochi, maledetti e subito? In una piccola borgata tra Cesana e Sauze di Cesana negli ultimi dieci anni è stato costruito un centinaio di baite: nella stragrande maggioranza sono vuote. Il costruttore, con candore, ammetteva che il ritorno economico era garantito dalle alchimie finanziarie, a prescindere dalla vendita degli alloggi in baita. Se fosse vero anche per i centri commerciali? La banca guadagna finanziando il progetto, il Comune incassa gli oneri di urbanizzazione, il costruttore scarica gli oneri finanziari sui fornitori dilazionando i pagamenti, i franchiser anticipano i fondi per l’apertura dei singoli store e così via, in un circolo dove il denaro vero è scarso ma si moltiplica strada facendo. Sulla carta.
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