Andar per Tanaro anche nei giorni difficili
Un fiume e un territorio. La forza dell'acqua che provoca tragedie perchè alimentate da un rapporto sbagliato dell'uomo con la natura
Tanaro. Un pezzetto del mio cuore sta di casa a Ormea, nell’alta Val Tanaro. Un fiume a cui ho iniziato a voler bene sin da quando, piccina piccina, correvo dietro a piccoli ramoscelli, lanciati in acqua in un’improbabile gara e spinti verso un’opinabile vittoria dagli incitamenti miei e dei miei fratelli. Il sole estivo e le acqua fresche e tranquille che rinfrescavano l’aria.
Non sempre tranquille, come ebbi modo di constatare con i miei occhi quando nel novembre del 1994, ferma sul ponte di Ormea, qualche giorno dopo la drammatica alluvione, gli anziani sconsolati scuotevano la testa: “Si è ripreso quello che era suo”, sostenevano. E allora due anni fa ho voluto conoscerlo più da vicino, risalendolo integralmente a piedi dal punto in cui porta le sue acque al Po, o, come qualcuno sostiene con un volo pindarico, il Po convoglia la sua massa liquida al fiume che dovrebbe cambiare nome alla più vasta pianura nazionale da Padana a Tanaria. È stato l’ultimo viaggio a piedi progettato e camminato con Riccardo Carnovalini, fotografo camminatore con esperienza più che trentennale. Con noi un pittore di macchie, Claudio Jaccarino, spezzino di nascita e milanese di adozione.
Una dozzina di incontri pubblici per conoscere e comprendere la vita di questo giovane fiume ancora poco avvezzo a stare nel suo alveo, poco più di duecentocinquanta chilometri, suddivisi in nove tappe, per congiungere con i nostri piedi Bassignana a Passo Laiardo, dove Tanarello e Rio Nero si fondono in un unico nome. In quei giorni pioveva molto, il fiume limaccioso intimoriva. Ogni giorno i nostri passi cadenzati da pennellate, scatti fotografici e parole degli esperti locali che si sono presi il tempo di raccontarci il Tanaro. Ogni sera testimonianze, ricordi, voci e progetti. Ci hanno raccontato di un fiume da tenere più pulito per evitare l’effetto diga, specie nei pressi dei ponti. Ci hanno parlato di autunni ormai troppo caldi che non permettono alla pioggia di farsi fiocco di neve.
Ci hanno parlato di boschi quasi senza manutenzione e di terreni che franano più facilmente. Ci hanno fatto vedere case portate vie nel 1994 e ricostruite esattamente negli stessi spazi e costruzioni sorte, con tutti i permessi in regola, nelle lame, prati che sarebbero da lasciare a disposizione del fiume per i suoi naturali movimenti. Però abbiamo anche notato opere di ingegneria civile, come aree di esondazione ricreate ad hoc, e opere di ingegneria umanistica che lavorano per riportare amore, e quindi tutela, per il proprio territorio. Un’attività certamente necessaria perché nella bassa valle abbiamo percepito un timore nei confronti del Tanaro che spinge la gente a vivere come se il fiume non fosse lì: rinchiuso in argini alti si fa finta di non vederlo, come se passargli vicino fischiettando con noncuranza potesse tenerlo buono buono dentro i suoi argini. E invece, probabilmente, una mossa giusta per dare scacco matto ai danni che fa nelle sue irruenze, sarebbe viverlo, conoscerlo e rispettarlo.
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