Quello che i malati urlano nel silenzio

Dopo il caso di Fabiano Antoniani, la riflessione di un'esperienza davvero profonda

Parole chiave: fine vita (6), dignità (16), umanità (8), eutanasia (10)
Quello che i malati urlano nel silenzio

Adesso che il clamore mediatico attorno alla scelta di Fabiano Antoniani, di porre fine alla propria vita, in Svizzera, si sta smorzando, chi vive, ammalati e familiari, in situazioni simili alla sua, rialzano la testa. Per guardarsi attorno e riscoprire che tutto quanto è stato detto con foga, passione, spesso ignoranza dei fatti, con buone intenzioni e anche con scopi strumentali, non ha intaccato la loro totale solitudine e totale assenza di sostegni istituzionali, umani, morali, sanitari, economici. Tutto rimane in quel buio opprimente, in quella sofferenza che scava nei corpi e nelle anime, lasciandole sempre più ulcerate, smarrite, disperate.

Avvertono di avere subito un’ennesima beffa a uso e consumo di giornali e televisioni che sparano i loro colpi di cannone, per poi lasciar cadere nell’oblio chi hanno colpito. A uso di una società che si lava la coscienza, facendo i suoi show sul palcoscenico della visibilità occasionale, per subito dimenticare.

Forse, invece, è questo il momento giusto per entrare in punta di piedi, senza clamori, nelle «stanze», dove si consuma una solitudine assordante che aggiunge dramma al dramma. Ma dove si può anche scoprire, nel mondo rovesciato in cui queste persone vivono, dei potenti antidoti alla perdita di significati e di riferimenti fondamentali, di un’identità che ha provocato il caos incontrollabile dell’epoca moderna. Si può scoprire che gli «ammalati» siamo noi, che viviamo fuori da quelle «stanze», contaminati dal virus delle proprie indifferenze ed egoismi, aridità. Incapaci di conoscenza e di comunicazione, quella vera, che permette di realizzarsi pienamente vivendo la vita dell’altro.

Stati vegetativi e di coma, fasi finali di patologie che riducono all’impotenza fisica come quelli della Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, o di altre malattie invalidanti, come le cerebro lesioni e traumi cranici, come la Locked-in, una delle più tragiche (la mente rimane lucida in un corpo totalmente tetraplegico, solo il battito delle ciglia per tentare di comunicare), sono drammi che durano anni. Creano il deserto attorno, pongono domande e richieste alle quali continuiamo a non dare risposte.

La prima richiesta di questi ammalati è di non essere considerati una merce avariata da scartare nei bilanci umani, economici e sanitari. Un ostacolo a quell’efficienza tutta rivolta a ottenere successo, denaro, affermazioni, che sono diventati la misura unica nei confronti delle persone e delle situazioni.

«Siamo vivi, anche se non possiamo più condividere la vostra esistenza. Vi chiediamo di stare con noi nella quotidianità della nostra vita. È l’unico modo per conoscerci, ma anche per conoscere voi stessi. Per uscire dalla gabbia di un’esistenza, schiava di ritmi di vita disumani, di un consumo del tempo, degli affetti, delle emozioni e rapporti umani che riduce a dei robot, condannati a percorrere le strade del mondo come burattini passivi, manovrati dalla prepotenza e dagli interessi del più forte».

La seconda richiesta: «Aiutateci ad avere una qualità di vita e di cure che ci aiuti ad affrontare le difficoltà che hanno cambiato tutto, ma veramente tutto. Che ci permetta di testimoniare che prima di ogni altra cosa, conta l’amore, dato e ricevuto, gratuitamente. Questo genere d’amore cambia radicalmente la vita, alimenta l’intelligenza del cuore e permette di entrare in una dimensione dove non soltanto il visibile, ma più ancor l’invisibile, a cominciare dalle nostre presenze, spalanca orizzonti insospettati.

Dove le ideologie, i ragionamenti astratti, i proclami, le divisioni sociali e culturali di popoli e di razze, le verità che si sono perse per strada, sono superate dall’intensità e dalla bellezza del tenersi per mano. Dove ciò che conta è l’essenziale, spoglio di ogni inutile sovrapiù. È comunicare attraverso i corpi prima che con le parole. Con tenerezza, rispetto reciproco, vera libertà».

Chi frequenta questi luoghi, sosta accanto a questi viandanti ai quali sono state interdette le strade della normalità e aperte altre, complesse e dolorose, ma ricche di significati, difficili da capire per chi non le pratica da vicino, ne esce ogni volta trasformato. Tutto quanto prima pareva importante e legato alla precarietà della vita terrena, gli inganni e le illusioni della società della visibilità e del potere del più forte, dell’eterna giovinezza e della cancellazione della morte, mostrano la loro totale inconsistenza. Non sono vita, ma parodia di quella che è la vera vita che si scopre accanto questi «ultimi fra gli ultimi» che ci ricordano come «Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza , ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi» (Dietrich Bonhoeffer)

Accanto a loro può iniziare una seria e non strumentale riflessione. Ricerche severe hanno testimoniato che, accanto a chi decide per soluzioni estreme e vorrebbe andarsene, oppresso da sofferenze insostenibili, ci sono tanti che dicono di preferire una vita spezzata, estrema, alla morte. Nulla può essere dato per scontato. Siamo di fronte a situazioni così complesse da rendere inopportune le interferenze e le verità assolute di cui ci si appropria dall’esterno.

Una cosa è certa e va «urlata»: questi ammalati, in nessun caso possono essere considerati delle cartelle cliniche che vanno a bilancio economico. Sono persone vive, fino all’ultimo respiro, spesso più vive degli stessi «vivi» che abitano oltre la siepe.

Sono «la nave cocchiera» che può aiutare la società tutta a uscire dal pantano nel quale sprofonda, per riprendere una navigazione che porti alla salvezza e a un futuro. Salire su questa nave, con umiltà, senza aspettative di nessun genere, senza giudicare o fare proclami, per compiere insieme questo viaggio nel mistero della vita e della morte, della sofferenza, guardandosi negli occhi e rimanendo accanto a quei letti, nel silenzio che ci parla di quelle «stanze» è il primo fondamentale passo da compiere. Viene prima di ogni legge, norma, documento, atto istituzionale, professione anche di fede. Che deve dovranno comunque passare da quelle «stanze» e «visitare», ascoltare chi le abita per risultare affidabili e veramente utili.

Allora si potranno affrontare le tante situazioni dolorose, come quella di Fabo, con serenità e autentica condivisione, rispetto e quell’amore che riesce a portare luce anche nel buio più fitto. Ad umanizzare anche la malattia e la morte. 

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