Al di là di ponti e muri
Una riflessione che si inserisce nel contesto del convegno "Lo straniero" svoltosi il 22 marzo nell'aula del Consiglio Regionale del Piemonte
Sono stato coi miei allievi a Riace - “il paese dell’accoglienza”, come è scritto sui cartelli che qualificano per il visitatore questo luogo, diventato famoso nel mondo per la seconda volta dopo quella dei bronzi ritrovati in mare.
Ci sono andato sapendo di incontrare un mito, e già col presentimento che non mi sarebbe stato concesso di unirmi alla sua celebrazione. Il fatto poi di esserci trovati in una situazione ben diversa da quella immaginata ci ha costretti a indagarla a fondo, al fine di capirne davvero il senso. Abbiamo così per alcuni giorni intervistato amministratori e oppositori, il parroco, comuni cittadini, immigrati, operatori delle cooperative, e infine la figura simbolo dell’intera esperienza: il sindaco Domenico Lucano, indicato dalla rivista Fortune come l’Italiano più influente nel mondo. Con lui personalmente ho, non senza commozione, rivissuto una vicenda politica e umana da cui mi pensavo ormai lontano, e che invece tornava a interpellarmi.
Alla luce di quell’esperienza mi sono sentito in dovere di formulare alcune considerazioni. Non entrerò nel merito di fatti che richiederebbero tutt’altra indagine. Voglio invece sottoporre a critica le semplificazioni mediatiche su cui abitualmente fondiamo le nostre convinzioni.
Una possibile sintesi
Sembra che, di fronte alla pressione esercitata da masse umane apparentemente incontenibili sui confini delle aree ricche del pianeta, l’alternativa sia rendere quei confini più permeabili, oppure irrigidirne la chiusura. Detto con le parole dello slogan che con insistenza ricorre, bisogna decidere se gettare ponti o innalzare muri.
Posta la questione in quei termini, la decisione è scontata. Tutto il bene sta da una parte, tutto il male dall’altra.
Dalla dei ponti si presenta infatti un valore fondamentale e universale: la generosità, il soccorso al bisognoso e l’ospitalità. Da quella dei muri sembra esserci null’altro che la chiusura nell’egoismo, il rifiuto di riconoscere la comune umanità di chi chiede aiuto, la difesa rancorosa di un benessere che ci si rifiuta di condividere. Oltre che, ovviamente, il razzismo.
Personalmente condivido con Domenico Lucano certe origini politiche, e quindi una sensibilità che difficilmente viene meno anche attraverso percorsi di altro tipo. Ho poi dedicato una parte considerevole della vita a quel che comunemente è inteso come dialogo tra le culture e le religioni. Penso sinceramente che le nostre radici occidentali debbano attingere nuova vita dall’incontro con l’altro. Amo mettermi dal suo punto di vista, cercando una più ampia consapevolezza di me stesso.
Quello che dirò non mi è dunque facile dirlo. Sono però convinto che le propensioni compassionevoli e caritatevoli a cui con troppa facilità ci si richiama debbano affrontare una prova decisiva: quella dell’incontro con la verità. Con la fiducia che non ne escano sminuite ma purificate e rafforzate.
L’accoglienza come morale e come ideologia
Il problema è che l’accoglienza è un principio davvero indiscutibile sul piano morale, mentre non è detto che lo sia su quello politico. Ovvero è alla persona che è richiesto di essere accogliente, e non allo Stato in quanto tale.
Quest’ultimo ha piuttosto il compito di proteggere i cittadini da pericoli provenienti dall’esterno, e a tal fine potrebbe anche prendere decisioni tutt’altro che accoglienti.
Quando allo Stato si richiede di agire secondo il principio di accoglienza, bisogna dunque interrogarsi intorno ai presupposti da cui si muove.
Se, genericamente, si ritiene che i governanti debbano nelle loro decisioni conformarsi a principi morali condivisi, si è senz’altro nel giusto, ma non si può esser certi che questo sempre accada, dati i compiti specifici che lo Stato riveste. Ad esempio i governanti di un paese profondamente impregnato di etica cristiana saranno senz’altro inclini all’accoglienza, ma in talune circostanze, quando avvertano una situazione di pericolo, dovranno agire diversamente.
Altro caso è quello in cui si ritiene che un certo valore debba interamente plasmare l’azione dello Stato. È ciò che oggi si rimprovera ai fondamentalismi, e in genere ai totalitarismi. Si hanno più che fondate ragioni per essere critici verso questo tipo di atteggiamento, perché comporta un indebito slittamento di contesto. Quello che legittimamente è richiesto alla persona, in quanto soggetto morale, cioè capace di assumersi la responsabilità del bene e del male, lo si attribuisce a un’entità – lo Stato – che tale non è; non avendo tra i suoi compiti quello di realizzare il bene, ma tutt’al più di determinare condizioni favorevoli affinché gli individui lo realizzino.
Il passaggio incontrollato dal piano morale a quello politico determina ciò che è corretto chiamare ideologia. Ovvero si usa l’impatto emotivo che nelle persone è suscitato da un appello morale, non per ottenere un adeguamento del comportamento alla norma condivisa, ma per provocare cambiamenti sociali il cui esito è infine incontrollabile dagli individui.
Un’ideologia appare convincente perché rispecchia valori intimamente vissuti. Così è stato per le ideologie sociali. Il valore della giustizia ha mobilitato milioni di uomini e donne. Gli esiti sono stati però ben diversi da quelli attesi. Oggi l’accoglienza ha evidentemente preso il posto della giustizia.
Smettiamo di demonizzare i muri
Nell’ambito morale la lotta tra il bene e il male si svolge sulla scena interiore della coscienza. Il male, così come il bene, è una condizione della persona, non qualcosa o qualcuno di esterno.
In una ideologia invece il bene e il male si identificano con precise realtà esterne. C’è una classe, o un popolo, una razza, una religione, un’istituzione, che rappresenta tutto il bene, e un’altra classe, o un popolo, una razza, una religione, un’istituzione, che rappresenta tutto il male. L’intero senso della vicenda umana si riduce a sostenere la vittoria di una parte sull’altra.
Quando un’ideologia viene meno, chi ne era stato coinvolto scopre che la vita è più complessa di quanto gli era stato fatto credere. Può cadere nel cinismo, e pensare che il bene e il male non esistano, ma solo l’utile e il dannoso. Oppure riportare la questione a quella scena interiore da cui indebitamente era stata sottratta.
Oggi sembra che tutto il bene coincida con i ponti, e tutto il male con i muri. Ma è sbagliato demonizzare i muri, di qualunque natura essi siano: perché è intrinseco al concetto di Stato avere dei confini- non solo geografici - e che il loro attraversamento sia sottoposto a regole. Se si pensa che al di sopra dello Stato vi siano regole a cui esso si deve conformare, tipo i diritti umani, bisogna sapere se la loro natura è in fondo di tipo morale - cioè si tratta di valori a cui i governanti sono chiamati a riferirsi in quanto condivisi dalla coscienza collettiva; oppure se debbano esser fatte valere come espressione di un’autorità mondiale a cui gli stati sottostanno. Attenzione, perché in questo secondo caso si sta presupponendo un potere mondiale al di sopra degli stati, il quale, non essendo formalmente definito, non può che essere frutto dei rapporti di forza vigenti.
Si sta parlando di ciò che comunemente chiamiamo globalizzazione. Ovvero di un sistema che unifica il pianeta innanzitutto sul piano economico, e che determina rapporti tra gli stati in cui a ciascuno di essi è richiesto, in misura diversa a seconda del suo potere, di rinunciare a parti della propria sovranità.
Alla luce di ciò, si può capire quanto la questione dell’accoglienza sia delicata: perché chiama in causa altre questioni decisive per gli assetti mondiali.
Non a caso i gruppi politici che in Occidente oggi contestano le politiche d’accoglienza sono generalmente critici anche nei confronti della globalizzazione. E si potrebbe dire che gli immigrati vengano percepiti, loro malgrado, come metafora vivente della globalizzazione, e in quanto tali diventino oggetto di ostilità.
Varrebbe la pena di riflettere su questo aspetto, al di là dei luoghi comuni.
Chi sostiene le politiche dell’accoglienza sulla base di valori di solidarietà umana, deve prendere in considerazione che chi le avversa non necessariamente lo fa per un loro rifiuto.
Poiché si tratta spesso di ceti popolari, è anche fuorviante parlare sempre di guerra tra poveri. Proviamo a pensare invece che essi siano sufficientemente consapevoli di quel che avviene: cioè che la globalizzazione ha determinato un loro declassamento, proprio in quanto non più protetti dai confini dello Stato. È comprensibile la richiesta che essi vengano ristabiliti, e che lo Stato si riappropri della sua sovranità.
Se insomma vogliono che sia posto un argine alla libera circolazione degli uomini, che l’immigrazione rappresenta visibilmente, è perché vi colgono il riflesso della libera circolazione dei capitali, a cui giustamente attribuiscono la causa delle loro disgrazie. C’è poi naturalmente un’autentica xenofobia, ma anche in questo c’è da distinguere.
L’accoglienza è una virtù che spontaneamente fiorisce in comunità ben salde, che possono permettersi esperienze di inclusione. Trova invece difficoltà ad esprimersi in contesti sociali in crisi, il cui problema è ristabilire legami sulla base di una comune appartenenza, che a sua volta per lo più emerge nella contrapposizione agli elementi giudicati estranei.
Traffici infami
Occorre in ogni caso guardarsi dalla colpevole ingenuità con cui sovente gli attuali flussi migratori vengono trattati.
Non c’è solo gente in fuga dalle guerre o da altre gravi condizioni, e neppure da una povertà estrema: gente a cui sarebbe vergognoso non aprire le porte. C’è un traffico organizzato di esseri umani che è non solo conseguenza di altri fatti ma in piena sincronia con essi, e addirittura forse contribuisce a determinarli.
Si tratta di un fenomeno la cui consistenza economica è paragonabile a quella del sistema della droga, nelle mani di organizzazioni criminali non meno spietate.
In varie aree del modo, dall’Africa subsahariana al Pakistan, eventi più o meno traumatici contribuiscono a creare la persuasione che le condizioni di vita non siano più tollerabili e l’unica soluzione che le famiglie investano nel viaggio in Europa di un loro membro. Il progetto è di aprire una strada attraverso cui altri possano seguire.
Avviene così che a costo di grandi sacrifici viene raccolta la somma – alcune migliaia di euro – che consente ad alcuni – generalmente i maschi più robusti e capaci – di intraprendere la grande avventura. Un’avventura che per alcuni finisce con la morte, ma che alla maggioranza consente di raggiungere la meta prefissata. Dove proprio le politiche di accoglienza predisposte dalle istituzioni europee determinano un nuovo business, il cui perno sono le cooperative che gestiscono l’accoglienza stessa.
La realtà è insomma di una vera e propria tratta, paragonabile al commercio degli schiavi dei secoli scorsi. Con la differenza che le vittime non sono nel ruolo di manodopera coatta, ma in quello di clienti e utenti di un sistema a cui collaborano volontariamente, e che trova in loro l’occasione per accumulare o mobilitare ingenti masse di denaro.
Non importa se alla fine i profughi non riescono a inserirsi nella nostra società. La loro funzione l’hanno già svolta. Se la maggioranza che alla fine non ha titolo per rimanere potesse venire rimpatriata, il vantaggio sarebbe completo, senza il disturbo di un’ingombrante presenza. Siccome così non è, non foss’altro che per i costi, si abbandona sul terreno un’inquietante bomba sociale. Chi si occupa di accoglienza dovrebbe tener presente tutto ciò, perché è quasi inevitabile farsi complici di uno dei più infami commerci che la storia ricordi.
L’industria dell’accoglienza
Alla luce di tale consapevolezza, il meno che si possa dire è che, chi invita a creare più accoglienza, non sa di cosa parla – o non vuole saperlo. A suo modo l’accoglienza funziona benissimo, se capiamo la funzione che essa svolge nel sistema sopra delineato. Il punto è che, in un contesto ideologico, il riferimento a un valore morale viene giocato per ottenere tutt’altri scopi. Non importa quanto si sia consapevoli di tale slittamento. Generalmente i più generosi – coloro al cui impegno si deve la realizzazione di una certa impresa – lo sono solo parzialmente. Al loro fianco però altri ben più cinici prendono il sopravvento. Agli occhi di questi ultimi la realtà che è venuta configurandosi non è altro che l’occasione per ottenere vantaggi. Per questo le rivoluzioni sorgono da nobili intenzioni, ma poi involvono nel rafforzamento di un apparato e infine si consumano nella corruzione.
Tornando all’accoglienza, gli immensi finanziamenti di cui beneficia assicurano il suo funzionamento. Accogliere, da impulso generoso, diventa un mestiere. Intendiamoci: nulla ci sarebbe di male se chi se ne occupa ricevesse di che vivere. Ci sono professioni – tutte quelle educative e di aiuto alla persona – dove ciascuno ha l’opportunità di dare più di quello che riceve. Sul piano personale, ciascuno una volta ancora è rimandato alla sua coscienza morale. Sul piano sociale la questione è però diversa. Se l’accoglienza diventa un’istituzione, bisogna sapere che essa tenderà a riprodurre se stessa prima ancora di soddisfare i bisogni a cui è preposta. Tanto più se questi ultimi non sono chiari e addirittura mistificati all’origine. Se infatti il bisogno fosse quello che si pensa, cioè creare un primo momento di inserimento nella realtà sociale e lavorativa ospitante, le cose avrebbero una logica coerente.
Il punto però è che generalmente non è così. Tant’è che raramente l’accoglienza consiste in percorsi educativi seriamente strutturati. La realtà è che i profughi si trovano sostanzialmente parcheggiati per un periodo notevolmente prolungato, che può arrivare a due o addirittura tre anni. In attesa che le autorità stabiliscano se hanno diritto ad accedere al riconoscimento di rifugiati, c’è una sorta di limbo in cui stazionano oziosi nei locali che li ospitano oppure in strada, fornendo un’immagine totalmente negativa alla popolazione.
Se almeno ai richiedenti asilo fosse richiesto di contribuire lavorando al proprio mantenimento, la situazione sarebbe più accettabile. Ma la legge lo impedisce, imponendo una situazione che gli addetti all’accoglienza difficilmente si sforzano di mutare. Essi infatti, con tutta la migliore volontà, si trovano a occupare un posto di lavoro che altrimenti non esisterebbe, e quindi sono i meno motivati a mettere in discussione quel contesto.
Di fatto l’accoglienza è una vera e propria industria. I trentacinque euro giornalieri che lo Stato versa per ciascun richiedente asilo determinano un volume economico di tutto rispetto. Parliamo in Italia di miliardi di euro e di migliaia di posti di lavoro. L’astio delle popolazioni locali spesso deriva dal fatto che i benefici non sono condivisi nell’ambito delle comunità coinvolte. La ragione per cui davvero Riace merita di essere citata è che, sulla base di un’originaria esperienza spontanea, il coinvolgimento della comunità locale è davvero avvenuto, il paese è stato ristrutturato, la fuga dei giovani verso il Nord arginata. L’accoglienza dà lavoro a un centinaio di residenti e quasi tutti in paese ne beneficiano.
Come avviene però quando si aprono le cateratte dei finanziamenti pubblici, c’è il pericolo di abusi. Il problema si pone oggi a livello nazionale. È anche facile che il sistema determini la dipendenza personale di chi riceve lavoro, in stridente contrasto con la retorica vigente. Ma soprattutto il problema è un altro. Trattandosi di un’industria di consistente rilievo, non si può prescindere da una valutazione dei suoi prodotti. E qui tocchiamo un tasto davvero dolente.
Quale integrazione?
Come abbiamo visto, un serio problema è la confusione concettuale che avviene intorno alla parola “accoglienza”. La si usa almeno in tre accezioni: per intendere un’attitudine morale, uno sfondo ideologico e infine una precisa realtà istituzionale, con un cospicuo rilievo economico e che si colloca in un contesto internazionale inquietante.
Il fatto che i diversi significati non siano distinti favorisce una comunicazione tanto efficace quanto confusiva. Si è indotti a dare la propria adesione senza capire a cosa, e senza poterne cogliere le implicazioni.
Ebbene, altrettanta confusione troviamo tra il concetto di accoglienza e quello di integrazione.
Viene spontaneo pensare a una stretta connessione, ma così non è. Se con integrazione si deve intendere qualcosa in più che una generica accettazione, bensì piuttosto il processo attraverso cui si entra a far pienamente parte di una comunità, si capisce che le cose non sono semplici.
Tale processo implica infatti almeno due aspetti: uno socio-economico e uno culturale. Bisogna cioè, perché qualcuno possa davvero considerarsi integrato, che da un lato abbia autonome fonti di sussistenza nell’ambito dell’economia legale – quindi non in ambiti devianti -, dall’altro rivesta un ruolo riconosciuto nell’identità collettiva.
Ebbene, le due condizioni sono ben lungi dall’essere soddisfatte in Italia per le comunità immigrate che nel corso degli ultimi decenni sono venute man mano formandosi. I risultati sono poi del tutto inconsistenti per i flussi più recenti, quelli dei richiedenti asilo attuali, rispetto a cui parlare di accoglienza è più appropriato.
Limitiamoci all’aspetto economico.
Integrazione vorrebbe dire che il periodo di accoglienza è propedeutico a un effettivo inserimento lavorativo.
Ma, salvo casi particolari, ciò non accade affatto, né a Riace né in altrove in Italia. Al termine dell’accoglienza, quando cessano i finanziamenti, le persone quasi sempre si trovano in mezzo a una strada. Per lo più cercano di varcare le Alpi e raggiungere l’altra Europa, dove hanno maggiori chance.
Questo è un problema molto serio. Il sistema economico generato dall’accoglienza dipende infatti unicamente dai finanziamenti pubblici e non pone affatto le condizioni per forme di reddito indipendenti da essi. Si tratta insomma di un’economia fasulla, di cui pochi beneficiano e che impoverisce ulteriormente il paese.
Proviamo a pensare che per l’anno in corso sono previsti in Italia duecentocinquantamila nuovi arrivi. Riusciamo a farci un’idea dei costi per la nostra società? E quali esiti possiamo immaginare per poveretti a cui è stato tolto tutto e venduta a caro prezzo una menzogna?
In una situazione in cui in Italia il lavoro manca ormai per tutti, e una parte crescente di popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, quale integrazione riusciamo davvero a prospettare?
Perché davvero essa sia possibile, occorre pensare che gli immigrati abbiano accesso ad ambiti in cui si produce reddito, e siano anzi occasione per una ripresa dell’economia in generale. Ma è realistico pensarlo?
Parliamoci chiaro
La premessa a questo punto ineludibile è che nessuna prospettiva può ragionevolmente proporsi in mancanza di iniziative internazionali che consentano di contenere e arrestare i flussi.
Non è concepibile che fenomeni come la devastazione di intere aree mondiali e la deportazione di parte della popolazione procedano ulteriormente. Non porsi il problema significa rendersi complici della criminalità organizzata. E c’è forse anche di peggio.
Tutto ciò si inserisce infatti nel contesto della guerra mondiale a pezzi attualmente in corso, in cui non è inverosimile che il traffico di esseri umani sia anche usato per destabilizzare le nostre società. E qui si pongono altri problemi, che non possiamo permetterci di ignorare.
Considerate le dinamiche demografiche europee, che vedono processi rilevanti di denatalità, entro certi limiti i flussi migratori possono contribuire al mantenimento di un equilibrio, ma oltre quei limiti si determina una vera e propria sostituzione di popolazione, con effetti devastanti sul senso dell’identità collettiva.
È del tutto evidente che i movimenti xenofobi sono originati dal timore di un simile futuro. Limitarsi a contrastarli significa quindi non capire ciò che essi segnalano. Come nel detto dei nativi d’America, quando il dito indica la luna, solo gli stupidi guardano il dito.
Fatta questa premessa, il compito dell’integrazione è comunque arduo.
Bisogna avere il coraggio di aprire un serio dibattito, che non tema di chiamare le cose col loro nome.
Il problema di fondo, in un paese come l’Italia, è che sul piano economico il futuro in quanto tale è altamente problematico.
La delocalizzazione del sistema industriale, la privatizzazione dei beni pubblici e la finanziarizzazione dell’economia stanno mettendo a dura prova l’Occidente in quanto tale e in particolare le aree più deboli. Non a caso i nostri giovani con titoli di studio significativi stanno emigrando in massa.
Nella divisione internazionale del lavoro che si prospetta, l’Italia, pur mantenendo al Nord un certo apparato industriale, avrebbe le sue maggiori chance in ambito turistico e agricolo. In particolare l’agricoltura, che a livello internazionale torna a essere decisiva, sarebbe l’ambito in cui è più verosimile pensare l’inserimento degli immigrati. Ciò sarebbe un’opportunità preziosa per il Sud, ma anche in genere per le cosiddette aree interne del paese, quelle più spopolate e abbandonate, dove la riconquista del territorio avrebbe ricadute positive anche in ambito turistico.
Il problema è che non sarà facile uscire dal quadro di un’agricoltura assistita, nei fatti smantellata da tempo a favore della libera circolazione delle merci. Quando si pensi a fenomeni come il supersfruttamento degli immigrati nella raccolta della frutta al Sud, bisogna tener presente che a monte c’è l’impossibilità delle aziende agricole di far fronte, nei termini dei costi legali del lavoro, alla concorrenza di prodotti provenienti da paesi dove tale costo è bassissimo. Nuovamente il nodo della globalizzazione.
Ci sarà, nel confuso clima politico odierno, la capacità di intervenire sui vari piani - dal legislativo all’educativo all’imprenditoriale – per aprire un varco attraverso cui tornare a vedere il futuro?
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