Padre Ruggero Cipolla e le ultime esecuzioni capitali in Italia
Il ruolo del francescano, la pietà e la misericordia verso i condannati, per l'orrenda strage di Villarbasse 70° 1947-4 marzo-2017
«Il 5 marzo 1947, giorno successivo alla fucilazione dei tre assassini, mi trovavo sul trenino che da Torino portava a Saluzzo e ascoltai i commenti di alcuni passeggeri, seduti alle mie spalle, alla notizia con foto riportata da “La Stampa”. “Hai visto? Tra gli assassini c'era anche un frate! L'hanno fucilato”. “Ma no, il frate li assisteva”. “Ti sbagli, anche in fabbrica parlavano della fucilazione del frate”. “Se leggi l'articolo ti convincerai su quanto ti ho detto”. “Ma va là, sei tu un articolo, ripeto che in fabbrica tutti dicevano così”. Fui tentato di intervenire. Ma mi trattenni». La Stampa ne ha parlato in un documentato articolo di Giorgio Ballario.
Lo racconta il francescano Ruggero Cipolla, per cinquant’anni cappellano delle carceri «Nuove» di Torino. Settant’anni fa, all’alba del 4 marzo 1947, nel poligono di tiro delle Basse di Stura, le ultime esecuzioni capitali d’Italia perché il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione repubblicana che all’articolo 27 sancisce: «La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra».
La sera del 20 novembre 1945 a Villarbasse viene perpetrato un orrendo delitto per rapina: nella cascina Simonetto dieci persone sono stordite a bastonate e gettate semivive in una cisterna, appesantite da blocchi di cemento legati ai piedi con fildiferro. Una morte orribile. Le indagini di Polizia, Carabinieri e Alleati individuano e, nel marzo 1946, assicurano i colpevoli alla giustizia. Il processo, nei primi di luglio 1946, si conclude con la condanna a morte di Giovanni D'Ignoti, Giovanni Puleo, Francesco La Barbera. Il quarto, Pietro Lala alias Francesco Saporito, è ritrovato ucciso a Mezzojuso in Sicilia da dove provengono gli assassini. Saporito aveva lavorato nella cascina e aveva organizzato la rapina.
Padre Ruggero conobbe gli assassini e li assistette nel momento estremo. Ecco il suo racconto nel libro di Secondo Ercole, «Padre Ruggero. Vocazione religiosa e carcere» del 2004. Un capolavoro di umanità e spiritualità: «Li conobbi nell'aprile '46 quando, dopo l'arresto e qualche giorno dai Carabinieri di Venaria per l'interrogatorio, entrarono alle "Nuove". La sera della sentenza il 5 luglio 1946 scesero le scale del buco al centro della rotonda ed entrarono in celle separate ricavate nel seminterrato: erano segregati. Li visitai la sera stessa. Francesco La Barbera era disperato, cercai di calmarlo e pregai con lui in ginocchio. Ogni sera prima di ritirarmi in convento, andavo ad augurare la buonanotte. Il cibo era scarso (pane e minestra una volta al giorno, un secondo il giovedì e la domenica). Portavo loro quanto potevo, un frutto dal convento o qualcosa offerto da altri detenuti che avevano ricevuto il "soccorso" (il pacco dei famigliari). Mi impressionò il fatto che nessuno dei congiunti, negli 11 mesi alle "Nuove", si fece vivo. Unica eccezione qualche scritto di una zia di Puleo. Lui mi chiese di sostituirgli la camicia ridotta a uno straccio puzzolente; gli feci avere una camicia, donatami da un benefattore: era un capo scadente, confezionato con tela rigida e pesante ma pulito, anzi nuovo. Per recare loro un po’ di conforto, visto che fumavano, chiesi alle donne delle pulizie di conservare le cicche più lunghe lasciate nei portacenere; consegnavo loro il tabacco con le cartine per confezionare le sigarette. A fine novembre vennero a sapere che la Cassazione aveva confermato la condanna a morte».
Il francescano, campione di sensibilità, continua: «Intensificai le visite. Puleo era più restio nell'accettare il conforto religioso. La Barbera parlava più volentieri, si confessava e si comunicava spesso. Mi riferì che, quella sera, tornò indietro ad accendere una luce in cucina affinché il bambino (che aveva due anni e fu l'unico sopravvissuto) non si svegliasse al buio e si spaventasse! Era convinto che, se fossero stati processati in Sicilia, le decisioni sarebbero state diverse. Era l’affermazione fatta da Puleo alla fine del processo: “Qui ci uccidono perché siamo siciliani”. Una sera trovai La Barbera con il lenzuolo in testa, inginocchiato, dondolante, assorto in una specie di cantilena davanti alla branda sulla quale aveva disposto il materasso come un sarcofago e la scopa a mo' di cero. “Francesco, cosa fai? Stai dando i numeri?” Sempre ciondolando rispose: “Sto cantando le nenie, quelle che le nostre donne siciliane cantano per i morti. Faccio conto che qui sotto ci sia il mio corpo e prego perché dopo non lo farà più nessuno per me!”».
I legali presentano domanda di grazia al capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, che la nega. Alle 4 del 4 marzo 1947 l'avvocato Vacchina, con il direttore del carcere Alberto Augugliaro, entra nelle celle e comunica che la grazia è negata. Prosegue padre Cipolla: «Ero presente con il confratello padre Onorato Negro, al quale affidai D'Ignoti che, essendo analfabeta, avrebbe avuto bisogno di aiuto per scrivere una lettera e occorreva più tempo perché non si era mai accostato ai Sacramenti. Io mi dedicai agli altri. Quando entrai nella cella del Puleo, che si stava vestendo, notai accanto al Crocifisso alcuni fogli di carta da lettera. Gli chiesi se desiderava scrivere un saluto a "chi ti vuol bene". “E chi mi vuole bene?”. “Mi dicevi della zia che qualche volta ti ha scritto”. “Cosa le dico? Come sto di salute?” “Puoi consolarla. Avrà piacere di sapere che ti sei riconciliato con il Signore, che sei in pace con Dio”. Scrisse lentamente grandi parole con lettere maiuscole separate da un trattino. Era sinceramente pentito: “Non dico bugie ora! Voglio confessarmi”».
Il frate va da La Barbera: «Avevamo convenuto che quando sarebbe giunto il momento gli sarei stato vicino. Entrai nella cella a braccia tese: “Ecco il momento, Francesco”. Mi trovai davanti un disperato: bestemmie, insulti, parolacce irripetibili, malediceva tutti, me compreso e mi spinse fuori della porta. Il comandante delle guardie mi disse: “Padre, lo lasci stare è pazzo furibondo! Ed è ora di andare, il furgone è in cortile”. Non mi rassegnai: il Signore è morto per la salvezza di tutti, come è possibile che questo debba morire come un cane? Invocai lo Spirito Santo, spalancai la porta: “Francesco ti sei sfogato? Adesso prega con me”. Lo costrinsi a portare la mano alla fronte e segnarsi nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Poi ad alta voce: “Ave Maria, piena di grazia ...”. Cadde in ginocchio piangendo e pregando, finalmente riconciliato con Dio».
Alle Basse di Stura, legati alle sedie, «porsi loro il Crocifisso da baciare, cosa che fecero mentre ripetevo: “Gesù mio misericordia, perdonami”. Furono le ultime parole. Dopo il colpo di grazia posi sui loro corpi, composti nelle bare, l'immagine di Gesù Crocifisso».
Tra i giornalisti accreditati un ragazzo poco più che ventenne, Giorgio Bocca, redattore della «Gazzetta del Popolo» di Torino.
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