Olmi racconta il cardinale Martini, "Profeta di speranza"

Lunedì 6 marzo la proiezione del film "Vedete, sono uno di voi", anteprima torinese del racconto del grande regista e di Marco Garzonio nella bellissima sala del grattacielo di Intesa Sanpaolo

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Olmi racconta il cardinale Martini, "Profeta di speranza"

Il ventilatore, dal soffitto, gira, lentamente, a portare un po’ di refrigerio. La macchina da presa allarga lo sguardo, si vede il letto, la flebo che sgocciola, il crocifisso, il ticchettio dell’orologio, la finestra aperta sul bosco. È la stanza delle ultime ore terrene di Carlo Maria Martini, all’Aloisianum di Gallarate. Sono le prime immagini del documentario «Vedete, sono uno di voi» di Ermanno Olmi, prodotto da Istituto Luce Cinecittà e Rai Cinema, in uscita nelle sale il 16 marzo. Scritto da Olmi con Marco Garzonio, biografo e studioso della vita e dell’opera del cardinal Martini, fotografato da Fabio Olmi, montato da Paolo Cottignola, le attente ricerche negli archivi (dell’Istituto Luce e delle Teche Rai) di Nathalie Giacobino: tutto questo concorre alla realizzazione di un lavoro di raffinata, struggente bellezza.

Dalla stanza di Gallarate, il nastro della storia si riavvolge tornando al principio. E la voce fuori campo, dei pensieri e dei ricordi di Martini, è letta, in prima persona, proprio da Ermanno Olmi, amico di lunga data del cardinale, con un effetto di potenziamento e sovrapposizione di rara efficacia. Il tutto con uno stile piano e pacato che è uno dei tratti che ha sempre contraddistinto il lavoro del regista.

«Vedete, sono uno di voi», sempre, sembra ricordarci il cardinale, anche nel momento dell’imminenza della morte, per quello spavento che coglie tutti, proprio lì, in quegli istanti. E allora è meglio farsi semplici e poveri come i bambini. Con le foto di famiglia, con le immagini girate dall’assistente di Olmi, Giacomo Gatti, siamo allora davanti ai ricordi della fanciullezza torinese di Carlo Maria, i suoi occhi chiari, il suo sguardo schietto e diretto, il suo vestito «alla marinara» della buona borghesia subalpina. E poi, la scuola, il Valentino, i tuffi in riva al Po, le adunate delle camicie nere, gli echi sinistri dei discorsi di Mussolini che irrompono dalla radio in salotto, in una casa deserta. La fotografia e spesso desaturata, il bianco e nero e qualche viraggio color seppia rendono omogeneo il flusso dei ricordi. Intanto il Verdi della «Messa da Requiem» ogni tanto fa capolino (nella direzione di Claudio Abbado, scopriremo nei titoli di coda), una frase degli archi composta da Fabio Vacchi o un’eco della tromba di Paolo Fresu risuonano, accompagnando il racconto di un uomo che ha attraversato la storia dell’Italia.

Ci sono voluti quattro anni di lavoro per completare questo documentario. Anni di grande entusiasmo ed anche di fatica, anni in cui Olmi ha dovuto affrontare la sua, di malattia, poi superata («la Bestia… posso dire di averle messo la cavezza, perché va estinguendosi», ha confidato il regista). Un lavoro per scrutare nel passato di Martini, l’educazione nel rigore, nel benessere borghese non ancora stravolto dagli orrori del conflitto che poi porterà la famiglia a sfollare ad Orbassano. Arriva lo stupore di Leonardo Martini, l’ingegnere, padre del futuro arcivescovo, che in una lettera al di lui fratello Pippo confida la sorpresa, sua e della moglie, per una «grande ma non troppo lieta novità»: la volontà di Carlo Maria di farsi prete. «Il pensiero di staccarmi per sempre da un ragazzo così buono e così caro mi rattrista profondamente», scrive Leonardo. Diciassettenne, il 25 settembre 1944, Carlo Maria Martini entra nel collegio della Compagnia di Gesù a Cuneo. Ad accompagnarlo per l’ultimo saluto, solo la madre.

La storia personale e familiare, gli inserti da cinegiornale, proseguono. La figura morale e spirituale cresce e si consolida, Olmi sottolinea gli studi teologici, le lauree, le edizioni del Nuovo testamento, l’interesse per l’ebraismo che avvicinano Martini, sempre più, per affetto e passione spirituale, a Gerusalemme. Intanto Milano, livida, irriconoscibile ed impaurita è una città dove si muore in solitudine, tra miti perduti, veleni del terrorismo, banditismo del capitale.

Un vescovo polacco entra nel destino di Martini e lo invita ad esporre, nei Paesi di un’Europa ancora divisa dal Muro, le tesi del dialogo interreligioso. Ed è proprio quel vescovo, Karol Wojtyla, diventato Papa, che porta Martini sulla cattedra di Sant’Ambrogio, il 29 dicembre 1979. Martini, appena insediato (la sua figura così nobile ed elegante, la postura così fraternamente umile ed accogliente) sceso tra la sua gente deve presto inginocchiarsi sul corpo crivellato del giudice Galli e trovare parole di consolazione per la messa funebre del giornalista Walter Tobagi assassinato dai brigatisti.

Martini diventa seminatore di speranze, vescovo del dialogo, sollecita l’attenzione verso gli ultimi, le persone dimenticate o ferite nella dignità. E poi crea la Cattedra dei non credenti, per interrogare e interrogarsi. Martini è così il defensor civitatis, come scriverà Claudio Magris. Ponti e non muri, in una sorta di anticipazione di papa Bergoglio. Ed ancora: Tangentopoli, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. Tutto passa negli occhi e nella vita di Carlo Maria Martini. Fino a quando, e il virtuale cerchio del documentario si chiude, ormai vinto dalla malattia, lo sguardo sempre vigile e sereno, riesce ad impartire una ultima benedizione all’amico rabbino, agli uomini, al mondo che tanto ha amato.

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