Il futuro dei giornali
Fiducia dei lettori, sinergie e investimenti. A conclusione dei festeggiamenti per i 150 anni del quotidiano La Stampa
Come sarà il futuro della stampa, dei media, dell’informazione a livello locale e globale? È la domanda fondamentale alla quale hanno provato a dare risposte e scenari i più importanti editori e direttori delle testate di tutto il mondo, riuniti a Torino lo scorso 21 giugno per l’evento promosso da «La Stampa» a chiusura dei festeggiamenti per i 150 anni del quotidiano torinese.
Platea qualificata, sala non pienissima, molti addetti ai lavori, pochi rappresentanti delle istituzioni e dei corpi intermedi, sentinelle della società civile e dunque dei lettori, i protagonisti troppo spesso dimenticati da parte di editori, giornalisti e produttori di informazione. In ogni caso, i circa 400 riuniti nel luogo simbolo per il quotidiano torinese, la sala delle bobine di via Giordano Bruno, dove si trova la tipografia della «Stampa», hanno potuto ascoltare una carrellata di esperienze davvero di grande livello. I big dell'editoria mondialeinvitati da John Elkann hanno portato idee, esperienze, problematiche in un confronto pubblico sul futuro della stampa, parlando d’informazione, prodotti editoriali, giornali di carta e digitali e naturalmente del ruolo dei giornalisti nel futuro, senza reticente e tatticismi.
A «The future of the newspapers» hanno preso la parola i direttori di quotidiani cartacei (come Mario Calabresi e Maurizio Molinari) e di giornali on line (come Lydia Polgreen dell’«Huffington Post»), in arrivo dall'Europa ma anche da America e Asia. Tanti illustri ospiti, direttori, capo redattori e amministratori di colossi dell’editoria mondiale, tra gli altri Tsuneo Kita, presidente del gruppo editoriale giapponese «Nikkei», che ha rilevato il «Financial Times», Ascanio Seleme, editore del quotidiano brasiliano «O'Globo», e Bobby Ghosh, editore del giornale indiano «Hindustan Times», Zanny Beddoes, capo redattore dell’«Economist», Louis Dreyfys, ceo di «Le Monde», Julien Reichelt, capo redattore della «Bild» tedesca, in versione digitale.
Se la questione fosse semplice, si potrebbe considerare questa fase un passaggio ciclico di sofferenza economico-finanziaria della stampa locale, nazionale e internazionale al quale seguirà un tempo di ripresa. Non è così. Certo le idee non sono ancora chiarissime neppure tra i grandi dell’editoria. Un esempio? Nel corso del dibattito Mark Thomson, ceo del «New York Times», ha esordito celebrando il ‘funerale’ della carta stampata per poi concludere, nell’ultimo suo intervento, che «forse no, la carta stampata ha ancora un futuro».
Insomma, si è cercato di parlare di cambiamento e prefigurato scenari che oggi non sono ancora definiti, perché è impossibile farlo in modo completo. È stato ribadito da tutti i presenti come sia necessario, nella costruzione del futuro dei giornali, che tutti si sentano attori e non comparse, ognuno per la parte e la responsabilità che gli compete. Il punto focale è investire sul fattore umano, giornalisti, grafici, informatici e di promozione, e sul piano economico; tecnologia, piattaforme, riforme grafiche sempre con un costante e preciso controllo dei costi e dei ricavi; pronti ad invertire la rotta, se necessario. Parole chiave: fiducia nei lettori, il pubblico necessario per sopravvivere (fidelizzazione, abbonamenti. ecc), e qualità della produzione di notizie, commenti, approfondimenti, dentro ad un piano di sostenibilità che non vuol dire dismissione o riproposizione di modelli del passato, ma creatività e innovazione da inserire a tutti i livelli nelle redazioni e nelle strutture organizzative delle società editoriali.
Se ancora oggi non esiste un mezzo più efficace e potente della televisione, ma per oltre due secoli nulla è stato più forte e penetrante della carta stampata, in futuro tutto si potrebbe ribaltare. E allora torna l’idea forte che nessun mezzo ‘mangia’ l’altro mezzo, ma sono tutti complementari: necessari e ineludibilmente uniti. Oggi radio, tv, carta stampata resistono e resisteranno, ma solo in un contesto nel quale l’ampiezza e la portata della prospettiva digitale saranno in grado di trasferire la notizia dentro ad una dimensione ancora tutta da costruire, in quelle ‘protuberanze meccaniche’ di cui l’uomo tecnologico è ormai ‘portatore sano’: i-phone, tablet, dispositivi mobili, senza contare tutta la gamma di pc portatili o fissi, reti e cloud attraverso i quali è possibile e pensabile diffondere un messaggio, un’opinione o semplicemente raccontare un fatto, in modo professionale.
Allora ecco la nascita di una storia nuova e sempre antica, la necessità di raccontare la realtà, di osservare i fatti e poi produrre la notizia. Dalle gazzette a internet tutto è cambiato, i media sono mutati, ma il contenuto, seppure nell’età della «società liquida», globale e complessa, non è mutato, è sempre quello ed è il prodotto della mente dell’uomo.
«Il futuro dei giornali» come progetto ma soprattutto indirizzo politico, economico e culturale in una nuova prospettiva tutta da costruire. E dalla tipografia del quotidiano torinese gli attori dell’informazione di qualità certificata, sotto attacco non solo dalla deriva delle fake news ma da tutte le forme nuove, spesso non professionali e poco attendibili che la tecnologia e la rete hanno messo a disposizione dei cittadini per informarsi, hanno parlato di svolta e coraggiosa risposta da parte degli operatori professionali che dovranno essere in grado di ribadire la necessità della professione giornalista. Determinante sarà la creazione di un’alleanza tra media mondiali per andare alla trattativa e trovare un accordo virtuoso, non al ribasso, con le grandi compagnie informatiche, da Google ad Apple ai social network. Tuttò ciò per giocare un ruolo non di secondo piano in un passaggio epocale, nel quale la stampa tradizionale cartacea si muoverà nell’oceano complesso della realtà digitale. Piattaforme multiple in cui cartaceo e digitale si compenetrano e diventano un unico prodotto, sviluppato e promosso ai lettori su diversi canali. Non dunque mondi separati e antitetici, ma uniti nell’unica possibile realtà futura di una dimensione di sinergia fondata sulla qualità del prodotto, certificato dall’autorevolezza dei brand e dei giornali e dei giornalisti, professionisti a tutto tondo e quindi, per competenza e capacità, un gradino sopra gli altri soggetti produttori di informazioni.
I dati sono incontrovertibili, i numeri lo attestano, con differenze tra continente e continente, il bilanciamento tra giornale di carta e digitale nei prossimi dieci anni sarà pressoché identico, soprattutto se ci si riferisce ai grandi imperi editoriali d’oltreoceano, asiatici e alcuni colossi dell’editoria europea, con l’eccezione dei microterritori, dove, soprattutto in Europa e in Asia, ancora per alcuni decenni il prodotto cartaceo resisterà perché in grado di raccontare le vite e le storie di comunità locali.
Come è possibile, dunque, garantire un futuro al giornalismo? Significative e senza filtri le parole del direttore de «La Stampa», che ha parlato del giornale come di una comunità intellettuale, e la sfida per trasformarla in una comunità di servizi. Non si nasconde Maurizio Molinari, e va al cuore dei problemi: «Una diminuzione costante delle copie vendute in edicola, il calo pubblicitario, la concorrenza delle piattaforme digitali e l’informazione gratuita». I numeri parlano chiaro: «Se ogni anno un utente digitale rende in media 25 dollari a Facebook e 25 centesimi ad un editore, significa che la sopravvivenza si deve conquistare». In quale modo, con quali accordi? Non andare allo scontro con le big company della tecnologia digitale, ma provare a riequilibrare la situazione, dando valore al proprio lavoro, fidelizzando i propri lettori, con la competenza, la sapienza e la capacità del giornalismo professionistico.
Interessante la prospettiva di Jeff Bezos, fondatore e ceo di Amazon e da cinque anni anche editore del «Washington Post»: «Sono le storie originali, gli approfondimenti, il giornalismo investigativo ad attirare gli abbonamenti. I soli ricavi della pubblicità non possono mantenere un giornale. Per sopravvivere con i proventi della pubblicità servirebbe una struttura molto snella, che si limiti a riscrivere in maniera intelligente il materiale prodotto da qualcun altro, rinunciando ai contenuti originali. Non credo sia questa la via giusta. La nostra missione, al contrario, è continuare a scrivere notizie sugli eventi importanti e per fare questo bisogna puntare sulla redazione, sui contenuti originali scritti dai nostri giornalisti».
A concludere i lavori, Carlo De Benedetti, presidente di Gedi. Dopo aver lanciato l’idea degli Stati generali della stampa e dell’editoria in Italia, ha affermato: «La democrazia ha bisogno di giornalismo di qualità e dunque dobbiamo concentrarci su una informazione che faccia la differenza e che si può avere solo con un contenuto di qualità eccezionalmente elevata. Ci deve essere un metodo basato su trasparenza, opinioni contrastanti e ammissione pubblica degli errori. Non vogliamo aiuti di Stato né sovvenzioni, ma dobbiamo trovare un modo per restare remunerativi. Se muore l'informazione non muore solo un settore economico, ma una funzione essenziale dei sistemi democratici».
C’è dunque un legame, una relazione, un confronto, una luce in fondo al tunnel? Forse lo sapremo soltanto nei prossimi anni. Intanto il confronto, per celebrare la fine di un’epoca e l’apertura di una nuova fase tutta nuova e da costruire, è servito per capire a che punto si è del processo di trasformazione.
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