Il declino della violenza secondo Pinker

Contributo tratto dalla newsletter del movimento di spiritualità coniugale ecco il loro sito 

Parole chiave: violenza (26), nonviolenza (8), storia (31)
Il declino della violenza secondo Pinker

Una risposta forse sorprendente, ma ben documentata in un libro di Steven Pinker intitolato ‘Il declino della violenza’ (Mondadori 2013), testo ponderoso ma scorrevole, vale davvero il tempo e l’impegno necessari alla sua lettura, una lettura che pagina dopo pagina illumina, distende e rasserena le zone d’ombra, le pieghe oscure in cui trovano rifugio le nostre paure e una certa percezione distorta della realtà del mondo.

Nelle pagine di Pinker non troviamo soltanto una disamina martellante di cifre e grafici volti a dimostrare che il tasso di violenza dei nostri tempi è un’inezia se confrontato con quello delle epoche passate, ma ancor più troviamo lo sforzo di portare alla luce i motivi, la cause, i percorsi che hanno condotto l’umanità alla situazione attuale: “Se oggi godiamo della pace, è perché le generazioni passate sono state sconvolte dalla violenza e hanno operato per ridurla; anche noi, quindi dobbiamo operare per ridurre la violenza che perdura nella nostra epoca. Anzi, è proprio il riconoscimento che la violenza è diminuita a indurre ad affermare l’utilità di tali sforzi. La disumanità dell’uomo verso l’uomo è stata a lungo oggetto di discorsi moralistici. Sapendo che qualcosa l’ha fatta calare, è lecito anche trattarla come una questione di causa ed effetto. Invece di chiederci: «Perché c’è la guerra?», potremmo chiederci: «Perché c’è la pace?». E tormentarci non solo per ciò che abbiamo fatto di male, ma anche per ciò che abbiamo fatto di bene. Giacché qualcosa di bene l’abbiamo fatto, e sarebbe importante capire di che cosa esattamente si tratta”.

 All’inizio del testo troviamo una domanda, anzi la domanda da cui tutto scaturisce. Infatti, “che cosa può esserci di più fondamentale, per la nostra idea di senso e di scopo, della risposta alla domanda se gli sforzi del genere umano, nel lungo periodo, ci abbiano lasciato in condizioni migliori o peggiori?”. Va da sé, ed è chiaro fin dal titolo, che quando l’Autore parla di condizioni migliori o peggiori del genere umano utilizza come criterio di giudizio il tasso di violenza espresso e documentato nelle varie epoche storiche. E per essere ancor più crudamente ‘obiettivi’, egli lo fa utilizzando come indicatore privilegiato il numero di morti di morte violenta, appunto, di cui ogni epoca è disseminata. A partire da queste premesse Pinker ci conduce lungo i millenni, i secoli e gli anni fino ai nostri giorni raccogliendo via via una quantità impressionante di fonti e di dati, mostrando come la violenza che ha contraddistinto l’agire umano fin dai suoi esordi si sia complessivamente e progressivamente, pur con oscillazioni anche imponenti, ridotta fino quasi a non essere più statisticamente confrontabile con le epoche passate se non proiettandola su una scala logaritmica.

Certo, “in un secolo che ha avuto inizio con l’11 settembre e i conflitti in Iraq e nel Darfur,“ - l’ISIS, il terrorismo islamico, Aleppo e la terza guerra mondiale ‘combattuta a pezzi’, aggiungeremmo noi nel 2016 -  “l’affermazione che viviamo in un’epoca insolitamente pacifica può colpirci come qualcosa fra l’allucinazione e l’oscenità”, eppure proprio così stanno le cose e se noi oggi  siamo portati a pensare che il mondo attuale sia abitato dalla violenza almeno, se non di più, quanto il mondo passato, è perché siamo vittime di due errori, per così dire, prospettici. Da un lato, il considerare il numero delle vittime in termini assoluti – va da sé che ogni singola vita è un assoluto, ma non è di questo che qui si tratta –, anziché rapportarlo con i volumi demografici di ciascuna epoca. Dall’altro, il verificarsi di quella che è stata chiamata “euristica della disponibilità”, indotta da una specie di “miopia storica”, per cui “più un’epoca è vicina al nostro punto d’osservazione nel presente, più dettagli ne vediamo…, più è facile ricordarne degli esempi, più lo riteniamo probabile”. Tenendo presenti queste forme di distorsione dell’effettiva dimensione dei conflitti e tenendoci alla giusta distanza dalla larga schiera di intellettuali “restia ad ammettere che nella civilizzazione, nella modernità e nella società occidentale possa esserci qualcosa di buono”, possiamo fondatamente sostenere che il XX secolo non è stato il secolo più sanguinoso della storia. “Sgombrare il campo da questo dogma è il primo passo per comprendere la traiettoria storica della guerra”. Valga per tutti un esempio: la rivolta e guerra civile di An Lushan che, scoppiata nella Cina dell’VIII secolo, durò otto anni e, secondo i censimenti, comportò la perdita di due terzi dei sudditi dell’impero, un sesto della popolazione mondiale del tempo: “Il peggiore massacro di tutti i tempi”. Utilizzando i criteri di rettifica delle distorsioni dovute all’euristica della disponibilità e all’esplosione demografica del XX secolo, consultando i libri di storia e valutando il numero delle vittime in proporzione alla popolazione mondiale dell’epoca è possibile stilare una classifica delle più imponenti carneficine, nella quale la Seconda guerra mondiale risulta ‘soltanto’ al 9° posto. “Il secondo passo consiste nel guardare più da vicino la distribuzione delle guerre nel tempo, e riserva ancora più sorprese”. Infatti, “l’intervallo senza guerre dal 1953 batte comodamente i due precedenti record del XIX secolo, di 38 e 44 anni. Anzi, il 15 maggio 1984 fu toccato il periodo di pace più lungo fra le maggiori potenze dai tempi dell’impero romano”. Un’affermazione che mette subito in chiaro di che cosa stiamo parlando e di quali sono le dimensioni storiche in gioco.

Ma c’è un altro fattore che ci rende difficile ammettere che il mondo di oggi è il migliore dei mondi passati. L’Autore ce lo spiega così: “la causa principale dell’illusione di una violenza onnipresente scaturisce forse proprio da una delle forze che hanno portato alla sua diminuzione. Il declino dei comportamenti violenti è proceduto di pari passo con il declino delle posizioni che tollerano o glorificano la violenza, e che spesso svolgono un ruolo guida. Se prendiamo come metro di misura le atrocità di massa compiute nel corso della storia umana, l’iniezione letale somministrata a un assassino in Texas, o un crimine occasionale dettato dall’odio, come l’intimidazione di un membro di una minoranza etnica da parte di un gruppo di teppisti, sono quisquilie. Ma oggi, dal nostro punto di vista, siamo portati a vedervi un segno di quanto in basso possa cadere la nostra condotta, non di quanto in alto sia salito il nostro metro di misura”. In altri termini, questo mondo ci pare più violento, non perché la violenza sia aumentata nel corso dei secoli, ma perché nel tempo, e in modo sempre più accelerato, si è abbassata drasticamente la nostra soglia di tollerabilità della violenza in tutte le sue forme. Non è necessario essere degli esperti dell’Antico Testamento per sapere quanta distanza ci separa da un mondo costellato di stermini e di ‘soluzioni finali’ e neppure occorre essere degli antropologi per sapere che ci fu un tempo in cui “non si poteva mangiare senza guardarsi dietro le spalle e non si poteva uscire di casa la mattina per urinare senza paura che qualcuno ti prendesse a bersaglio”. Tutto questo, oggi, non ci pare neppure concepibile. Come la guerra stessa, che nel nostro immaginario di oggi “si collocherebbe sulla linea di costumi quali la schiavitù, la servitù della gleba, il supplizio della ruota, lo sventramento, il combattimento fra cani e orso, il rogo dei gatti, le pire degli eretici, l’annegamento delle streghe, l’impiccagione dei ladri, le esecuzioni pubbliche, l’esposizione sulle forche di cadaveri in decomposizione, il duello, la prigione per debiti, la fustigazione, il giro di chiglia e così via, pratiche che (…) passarono da ineccepibili a controverse, a immorali, a inconcepibili e, infine, a idee da cui la nostra mente non è nemmeno più sfiorata”. Di questa progressiva uscita della violenza dal nostro orizzonte mentale l’autore fornisce una testimonianza che illustra più di ogni altro argomento quanto cammino abbia percorso l’umanità in tale direzione. Parlando della terribile pratica della crocifissione, largamente utilizzata nel passato, egli afferma che: “Anche se avessi Hitler nelle mie mani e potessi scegliere liberamente la punizione da infliggergli, non mi verrebbe mai in mente di sottoporlo a una tortura del genere”. Insomma, non è ancora il mondo in cui la guerra è finalmente diventata un tabù al pari dell’incesto, come auspicava Moravia, ma molte evidenze ci dicono che ci stiamo sempre più approssimando a tale meta.

Ma come è stato possibile giungere a questo stato di cose? Quali condizioni, valori, fatti, azioni hanno orientato il cammino dell’umanità verso una diminuzione generalizzata della violenza? “Per gli autori che hanno notato i declini della violenza, il solo fatto che essi siano stati così numerosi, e su così tante scale temporali e di grandezza, ha qualcosa di misterioso” e “che cosa pensare dell’impressione che nella storia umana vi sia un cartello indicatore con una freccia?”. Dichiarandosi ateo, l’Autore non può certo rifarsi ad un disegno provvidenziale, ma neppure cadere nel falso dilemma se l’uomo sia buono o malvagio per natura. Sta di fatto che una serie di ‘invenzioni’ dell’uomo hanno condotto via via l’umanità a razionalizzare la violenza, a contenerla, a stigmatizzarla e infine a ridurla. Hanno lavorato in tal senso i processi di ‘pacificazione’, attraverso la costituzione di entità statali sempre più estese e in grado di ridurre la conflittualità diffusa; i processi di ‘civilizzazione’, attraverso l’urbanizzazione e la formazione di economie sempre più aperte in senso commerciale; la ‘rivoluzione umanitaria’, con il suo culmine nell’Illuminismo che, seppure da tempo bistrattato da destra e da sinistra, ha tuttavia costituito una svolta decisiva, un’uscita definitiva dalle guerre di religione, quando “dal dare valore all’anima si passò al dare valore alla vita”. Partendo da una citazione di Voltaire – «Coloro che possono farvi credere assurdità, possono farvi commettere atrocità» -, l’Autore ripercorre il cammino faticoso che ci ha condotti a riconoscere nella ragione lo strumento condiviso di risoluzione dei conflitti. Anche il diffondersi della stampa, e quindi della lettura, ha significato un importante passo in avanti verso una riduzione della violenza: “Nel corso della storia la gamma di esseri ai cui interessi si dà valore come ai propri si è ampliata. Una domanda interessante è che cosa abbia allargato il cerchio dell’empatia. E un buon candidato è il diffondersi dell’alfabetizzazione. La lettura è una tecnologia di messa in prospettiva. Quando si hanno in testa i pensieri di un altro, si osserva il mondo dal suo punto di vista. Non solo si vedono e si odono cose di cui non si può fare esperienza di prima mano, ma si fa un passo nella mente di un’altra persona e si condividono temporaneamente i suoi atteggiamenti e le sue reazioni (…). L’«empatia» nel senso di adottare il punto di vista di un altro non è la stessa cosa dell’«empatia» nel senso di provare compassione per l’altro, ma la prima può portare per via naturale alla seconda”. Nell’epoca contemporanea, finita la stagione delle ideologie “all’origine di molte delle cose peggiori che gli esseri umani si siano mai fatti a vicenda”, le linee di tendenza fin qui tratteggiate si sono affermate e consolidate grazie al diffondersi delle democrazie, all’espandersi del commercio e dei mercati in senso globale, allo sviluppo delle organizzazioni internazionali con il loro vertice nella ‘Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo’, punto di avanzamento da cui è difficile pensare un ritorno all’indietro, alle tecnologie dei media, televisione e Internet in primis, che ci consentono di conoscere e incontrare i nostri simili ovunque essi siano e, last but not least, all’estensione progressiva del ruolo della donna nella società.

Non c’è forma di violenza che Pinker non abbia preso in considerazione e non c’è forma di riduzione della stessa che non sia stata evidenziata, dalla istigazione al genocidio giù giù fino alle leggi che limitano gli sculaccioni ai minori e a quelle che riconoscono diritti agli animali. Un cammino lungo e non scontato, di cui dobbiamo essere consapevoli per poter coltivare una ragionevole speranza: “Mi auguro che le cifre che ho schierato vi abbiano portato a pensare allo stato del mondo in termini un po’ migliori di quelli lugubri correnti. Eppure, dopo avere documentato decine di cali, abolizioni e zeri, quello che provo non è tanto ottimismo, quanto gratitudine”.

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