Il caso Pier Paolo Pasolini a trent'anni dalla morte
Un commento che parte dall'approfondimento dell'arte come analisi
Pier Paolo Pasolini trovava tragicamente la morte, all’idroscalo di Ostia, la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Sono passati quarant’anni e, come è giusto, in occasione di questo anniversario, oggi si ricorda la figura di uno degli intellettuali più importanti del secondo Novecento italiano. Scrittore, giornalista, uomo di cinema e di teatro, una persona che per le sue idee e per la sua omosessualità - di cui non faceva mistero - era spesso al centro di polemiche accese. In queste poche righe, a mo’ di celebrazione e ricordo, l’attenzione verrà puntata sul suo cinema e il suo teatro.
Cinema. Pasolini realizzava i suoi film da intellettuale «prestato» al cinema. C’era lo sguardo, il cuore e il pensiero di un uomo di profonda cultura che faceva cinema. E che si circondava di professionisti di prim’ordine del mondo della Settima Arte: il direttore della fotografia Tonino Delli Colli, il montatore Nino Bargagli, lo scenografo Danilo Donati, il supervisore e consulente per le musiche Ennio Morricone. Il tutto fatto proprio grazie ad una superiore cultura, storica e visiva, che molti altri registi, tecnicamente anche più dotati di Pasolini, si sognavano di avere, ai suoi tempi ma anche dopo.
Che Gabriele Muccino, oggi, dica, e scriva, che Pasolini era un regista «amatoriale», resta un non senso, una boutade neanche degna di attenzione. Dobbiamo andarci a rivedere le composizioni delle inquadrature di molti film e documentari di Pasolini, dal «Vangelo secondo Matteo» a «Uccellacci e uccellini», da «Sopralluoghi in Palestina» a «Le mura di Sana’a», da «Edipo re» a «Medea», o anche considerare le sue opere più disagevoli e contradditorie come «Il Decameron», «Il fiore delle Mille e una notte» o il suo finale «Salò». È pittura in movimento, rielaborazione del primo piano che è una caratteristica di molti registi colti, contemporanei a Pasolini. Autori che sono cresciuti con i formalisti russi e con il neorealismo. E, allora, cosa conta se, in Pasolini, la tecnica del campo-controcampo non era delle più raffinate, che senso ha «misurarlo» con un occhio iper-tecnico, buono, semmai, per l’analisi di un autore di oggi, del «post cinema 2.0.» degli anni Duemila? Pasolini era (è) qualcosa di più e di diverso di un semplice regista perché rappresenta un’umanità che conosce assai bene. Un’inquadratura di Pasolini si riconosce tra mille e descrive un mondo. Di non molti altri autori si può dire lo stesso.
Teatro. La sua opera di drammaturgo rispecchia, per temi e situazioni, quello che si vede nel suo cinema. Perciò, in odine sparso, «Affabulazione», «Calderón», «Pilade», «Porcile», «Orgia», «Bestia da stile», le sua traduzioni dell’«Orestiade» di Eschilo e del «Miles gloriosus» di Paluto, sono specchio della sua profonda cultura e della sua fervida curiosità. Sono strumenti di una poesia sobria, scarna e sospesa, excursus che, dalla lotta tra padri e figli al gusto del gioco, del comico, di parola e situazione, dalla «pesantezza» della tragedia alla leggerezza della commedia preannunciano anche la doppia tastiera di una trilogia comica e di una trilogia tragica che sigillerà poi la produzione cinematografica pasoliniana. Una visione drammaturgica che si è addensata e scurita nel corso degli anni, visione sempre più tetra di un mondo alla deriva.
Una visione, un corpus di scritti e di film che ancora ci parlano e ci stimolano, una voce, quella di Pasolini, che ancora ci aiuta a capire un po’ meglio la contemporaneità in cui siamo immersi.
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