Comunicare in massa (anche nella Chiesa)
Dietro lo sviluppo velocissimo e indefinito delle tecnologie c’è un’ideologia «forte» che sostiene la libertà ad ogni costo delle parole in rete. Ma resta evidente la difficoltà obiettiva di qualunque soggetto a garantire sistemi anche minimi di controllo
Uno dei personaggi di Spoon River che ispirò De André nell’album «Non al denaro, non all’amore né al cielo» voleva a tutti i costi trovare «le parole sicure per farsi ascoltare», entrare nelle conversazioni e nelle vite della gente. Così decise di imparare «la Treccani a memoria». Ma appunto, i suoi compaesani lo chiamarono «matto». Oggi, anche senza essere matti, conquistarsi ascolto sembra essere una priorità assoluta. Se la globalizzazione del denaro e delle merci conosce una battuta d’arresto, la comunicazione è sempre più «mondiale»: le tecnologie rendono possibile ciò che solo vent’anni fa sarebbe sembrato miracoloso. Una contemplazione del miracolo che viene abbondantemente rilanciata dai mass media: «Tutti a comunicare che stiamo comunicando» è il messaggio che passa continuamente. «Che cosa» stiamo comunicando? Non si sa; più importante è esserci, in rete, on line; e poter dimostrare che molti seguono il nostro canale di comunicazione.
La rivoluzione ha prodotto anche l’esplosione dei linguaggi (e la crisi delle lingue nazionali, e del sistema scolastico), creando un’infinità di nicchie in cui ciascuno è messo in grado di ritrovare (o inventare) la propria identità, in un posto (un sito) dove si sente a proprio agio e dove ritrova i suoi «simili», può parlare liberamente di se stesso e dei propri interessi. Ovviamente, non essendoci criteri discriminanti, il principio vale per gli amanti delle biciclette sportive, delle mobilità sostenibile o della cotoletta alla milanese come per i pedofili, i bulli, i negazionisti dell’Olocausto eccetera. Senza neppure menzionare i vantaggi che la rete mondiale ha regalato alle mafie di ogni genere e alle organizzazioni criminali. Impera, anche, il riduzionismo di ogni contenuto, la semplificazione obbligatoria delle parole e dei fatti. Sulla Chiesa, ad esempio, tutto è Papa e Vaticano, non si conosce distinzione anche quando a parlare è un vescovo locale o una comunità di base. E, se possibile, tutto è «scandalo», sia che si tratti di preti pedofili, di denunce della Caritas o di missionari che parlano da Paesi in guerra.
Dietro lo sviluppo velocissimo e indefinito delle tecnologie c’è un’ideologia «forte» che sostiene la libertà ad ogni costo dei contenuti in rete. Una libertà che sembra diventata il parametro di ogni altra conquista civile e sociale, facendo aggio, apparentemente almeno, anche sui diritti civili fondamentali. La pena di morte viene praticata in molti degli Stati Uniti allo stesso modo che in Iran e in Cina: ma questi due ultimi sono percepiti in Occidente come «dittature» non tanto e non solo perché uccidono i propri cittadini ma perché cercano di limitare l’accesso alla rete. Ancora: la «libertà d’espressione» è oggi il motore di ogni altro diritto, più importante anche di quelli sociali primari, che infatti stanno sfumando: è diventato «normale» anche in Occidente avere un lavoro precario, in prospettiva nessuna pensione, ricevere un’istruzione inadeguata, nascere e vivere in situazioni familiari complicate.
L’ideologia della libertà vorrebbe essere percepita come «neutrale», ma, ovviamente, non lo è. La libertà d’espressione individuale viene normalmente scambiata, o comprata, con la cessione dei nostri dati sensibili, senza nessuna possibilità di rintracciare la filiera che i nostri indirizzi e i nostri acquisti compiranno nel mondo digitale. Informazioni e profitti dei grandi gruppi digitali continuano a sfuggire, a 30 anni da Internet, alle legislazioni nazionali e sovranazionali. Se l’Unione europea deve faticare non poco per far pagare a Google le tasse, ancor più significativo è il conflitto sorto in California tra il governo degli Stati Uniti e Apple. I terroristi che compirono la strage di San Bernardino (2 dicembre 2015) dove vennero uccisi disponevano di un Iphone, che conteneva «dati sensibili» utili alle indagini (contatti, mail, messaggi…). Ma Apple, in nome del «contratto di privacy» stabilito coi suoi clienti, si è rifiutata di sbloccare le protezioni di quei cellullari… In termini di sovranità, oltre che di diritti civili e uguaglianza davanti alla legge, si è aperto un fronte che non richiede solo riflessioni accademiche, ma iniziative molto concrete del legislatore, e dunque della politica. Perché, sembra di capire, il potere di Apple intende se stesso oltre i confini della legge generale. I poteri dello Stato che fine fanno? (E poco conta che, qualche settimana dopo, l’Fbi abbia annunciato di essere riuscita a penetrare nel telefono dei terroristi senza l’aiuto di Apple).
Ugualmente, e ancor più, sfugge dagli orizzonti della «comunicazione felice», ogni riflessione allargata sulla manipolazione dei contenuti, e dunque delle opinioni mediate dalla rete. Il recente dibattito sulla «post-verità», cioè sulle notizie false e tendenziose che si impongono violentemente sulla rete ha evidenziato la difficoltà obiettiva di qualunque soggetto a garantire sistemi anche minimi di controllo. Qualunque soggetto: non solo i poteri pubblici ma le stesse grandi agenzie, da Google a Facebook, non hanno (o non vogliono usare?) gli strumenti efficaci per impedire l’«esondazione» di contenuti falsi, che magari catturano l’attenzione per poco tempo ma rimangono poi in rete per sempre.
E la Chiesa? La Chiesa ha un problema, decisivo, in più. Non si tratta solo di essere in condizione di comunicare con «tutti»: per i cristiani è essenziale il «che cosa» (anzi, il «Chi») si comunica. Messaggio e «testimonianza» sono la stessa cosa, fin dall’inizio. Il primato di Pietro si collega direttamente all’intuizione sulle «parole di vita eterna» di Gesù (Giovanni 6, 68); e il primo miracolo degli apostoli, alla Porta Bella, si fonda su un nome: «oro e argento non ne ho…» (Atti 3, 6). La chiave di volta della comunicazione della Chiesa non sono i mass media (gli strumenti), ma le persone; per questo la presenza in rete (come sui giornali e su ogni altro strumento) ha bisogno poi di andare oltre lo schermo del telefono e del video e raggiungere le persone vive, coinvolgendole in una «relazione» che non è più solamente mediatica.
Va in questa direzione la comunicazione di papa Francesco, capace di presentarsi e spendersi nei consueti contesti mediatici riportando continuamente l’attenzione sulle persone vere. E nella stessa direzione, ci pare, va anche l’intuizione di mons. Nosiglia, lanciata al recente incontro di formazione dei giornalisti piemontesi: attrezzarsi per realizzare un «master» sulla comunicazione ecclesiale destinato non agli «utenti» dei mass media ma prima di tutto agli operatori, giornalisti, blogger, operatori dei vari settori; cioè, persone vere, non strumenti e canali. Contribuire a formare una migliore conoscenza della realtà e dei linguaggi ecclesiali è un modo molto concreto per rendere «leggibile» la realtà della Chiesa al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni; ed è un tentativo, anche, per superare quell’«ecclesialese» che costituisce un ostacolo sempre maggiore (anche la Chiesa infatti ha lasciato maturare un suo gergo di nicchia, divenuto sempre più ingombrante ed esclusivo). Non si tratta di «imparare la Treccani a memoria», cioè di saper decodificare i termini teologici o i gerghi pastorali; piuttosto occorre non disperdere quell’insieme di conoscenze che permette di «riconoscere» i significati di un quadro o di una cattedrale. È il solo modo che abbiamo per andare oltre la logica del puro «evento», dell’emozione individuale; e rientrare in quel cammino culturale comune che è l’unico vero «patrimonio» dell’umanità intera.
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