Anniversari: quella controversa idea di conflitto armato/2
I cappellani militari, l'idea della guerra e l'opposizione di una parte del mondo cattolico alla violenza
«C’è Dio in tutto questo? Se è qui, che sia dannato!». La bestemmia è di un soldato nella battaglia della Somme in Francia (1° luglio-18 novembre 1916), una delle più cruenti carneficine della Grande Guerra.
Accanto ai soldati ci sono i cappellani militari che il generale Raffaele Cadorna, capo di Stato maggiore, vede come collaboratori nel mantenere la disciplina e nel sostenere lo spirito bellico delle truppe. I sacerdoti con le stellette, animati da ideali religiosi, risorgimentali e patriottici, si sentono precursori di una conciliazione tra religione e nazione. C’è una varietà di posizioni: dal nazionalista padre Reginaldo Giuliani, domenicano guerrafondaio, ai preti fascisti torinesi Edmondo De Amicis e Angelo Salza che sostengono la dittatura; da don Giovanni Minzoni, che verrà ucciso dagli squadristi; a padre Giulio Bevilacqua, maestro di Giovanni Battista Montini; da Angelo Giuseppe Roncalli a Primo Mazzolari e Michele Pellegrino: predicano una religione del dovere bellico senza odiare il nemico, si dedicano essenzialmente a compiti religiosi ma nutrono sentimenti patriottici e desiderano la vittoria dell’Italia.
Compito prevalente del cappellano è il servizio religioso e il richiamo al dovere e al patriottismo. Il soldato non può pensare che il suo sacrificio non abbia anche un valore cristiano. Il cappellano dei bersaglieri don Giuseppe Lovino scrive al vescovo di campo mons. Angelo Lorenzo Bartolomasi: «L'opera del cappellano militare nella truppa, se non erro, era di combinare colla vita dura, di sacrifizio, imposta dalla lunga e sanguinosa guerra, i principii della fede di Gesù Cristo, che si trovavano nel cuore dei soldati, ma che essi non sapevano conciliare. Dall’applicazione degli insegnamenti del Vangelo alla affatto nuova e imprevista fase della vita, formare nel soldato le virtù della vita militare, che consacrate dalla religione, dessero quella resistenza nel lungo cimento, che doveva fruttare alla Patria la vittoria completa».
Il cappellano attiva una serie di opere non motivate direttamente da esigenze di apostolato: «Case del soldato», «Ufficio notizie e corrispondenza», scuole per analfabeti, conferenze, diffusione di pubblicazioni, distribuzione di doni, assistenza e propaganda. I quasi 30 mila segretariati e comitati cattolici di assistenza ai soldati, sparsi in tutta Italia, coadiuvano queste opere, inviando materiali e sussidi. Nel maggio 1915 nasce a Roma l'Associazione per l'assistenza spirituale alle Forze Armate (Pasfa) come associazione di volontariato cattolico.
Ideate e dirette dal laziale don Giovanni Minozzi, le «Case del soldato» sono ospitate in baracche di legno, istituti religiosi, ville venete. Da poche decine nel 1916 diventano 250 nell'ottobre 1917 e 500 a fine guerra. Le dirigono i cappellani, ma anche preti-soldati o militari di loro fiducia; sono finanziate da benefattori ed enti cattolici, quasi per nulla dalle autorità militari. Nelle «Case» i soldati possono riposarsi dalla prima linea e trascorrere il tempo libero; svolgono servizio scolastico e ricreativo; sono dotate di biblioteche, strumenti musicali, dischi, a volte un cinema, sale di scrittura e di lettura. Vi si organizzano lotterie, giochi popolari, feste, spettacoli, conferenze, scuole per analfabeti, cooperative di consumo. Non hanno un'impronta confessionale perché sono aperte a tutti i soldati e per evitare noie da parte dei numerosi ufficiali anticlericali e massoni. I soldati vi vanno volentieri: nella «Casa» di Sagrado, a disposizione della Terza Armata, c’è un'affluenza di ben 2.500-3.000 soldati al giorno.
Tra i compiti dei cappellani c’è l’Ufficio notizie per le comunicazione tra l'Esercito e le famiglie dei soldati: trasmettono i dati sui militari caduti, feriti, dispersi a un Ufficio centrale che provvede ad avvertire le famiglie. L’Ufficio centrale sorge a Bologna per iniziativa dei cattolici, poi diventa un'istituzione pubblica. Le autorità militari delegano l'Ufficio notizie ai cappellani che cappellani interpretano in maniera estensiva la loro funzione e vi comprendono l’aiuto ai soldati nella corrispondenza con le famiglie. Ai moltissimi soldati analfabeti i cappellani leggono e scrivono le lettere e non di rado forniscono anche carta e penna.
Informa un cappellano militare della Grande Guerra: «Spesso i nostri soldati venivano a chiederci il favore di procurare loro notizie che da tempo non ricevevano dalla famiglia. L'incuria di quei di casa, o i disguidi postali hanno tenuto i cuori sospesi: durante queste attese dolorose essi riponevano in noi tutte le speranze di pronta corrispondenza. Intanto, parlando con il soldato della famiglia, scrivendo la lettera richiesta, si entrava nelle intimità: in quegli abboccamenti, in quelle confidenze fatte in mezzo al frastuono della “Casetta del soldato”, si stabiliva l'appuntamento per preparare con maggior comodità ai Sacramenti».
Oltre le Messe al campo, un servizio religioso di visite e relazioni personali, di condivisione e comprensione dei pensieri dei combattenti, dipende dalla buona volontà e sensibilità dei singoli cappellani, i quali considerano i soldati come «bambini», uomini semplici che si accontentano di poco, una caramella o un sorso di liquore. C'è nei cappellani una tendenza a dedicare più tempo agli ufficiali, classe colta con cui, al di là dell’anticlericalismo, è più facile intrattenersi. E la massoneria vuole screditare i cappellani, temendone l'effetto positivo per la Chiesa.
Tra l’altro il fronte italo-austriaco presenta, come nessun altro fronte, una guerra fra cattolici, essendo anche l'esercito asburgico composto sostanzialmente da cattolici, ossia ci si uccide fra esseri umani che appartengono alla stessa confessione religiosa. Invece sul fronte franco-tedesco si combattono cattolici e protestanti.
Sintomatica la vicenda di due cappellani. Don Primo Mazzolari torna dal fronte e scrive: «La guerra è passata come un uragano sulla vita degli uomini, come una tempesta violenta, come una follia di odio e di amore, come un fuoco nel quale si doveva fondere la vita nuova delle nazioni». Padre Giovanni Semeria, cappellano del Comando supremo, esalta la guerra della Patria; vive una grave crisi interiore sentendosi come il responsabile della morte di tanti giovani, italiani e austriaci, fino al ricovero in una clinica psichiatrica svizzera.
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