Michele Pellegrino, padre e pastore un vescovo in mezzo al suo popolo

Alla Comunità di Bose un convegno sabato e domenica in occasione del trentesimo anniversario della morte

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Michele Pellegrino, padre e pastore un vescovo in mezzo al suo popolo

Padre Michele Pellegrino, cristiano, padre conciliare, vescovo di Torino. Offro il mio contributo consapevole del grande debito che io e la mia comunità abbiamo verso di lui e convinto di dare una testimonianza soprattutto perché con lui ho avuto non solo conoscenza, ma anche assidua frequentazione e profonda amicizia: un legame approfondito anche dall’ascolto delle sue omelie in Sant’Alfonso e Sant’Anna, quando, giovane studente universitario, alloggiavo in via Morghen.

La sua è stata una stagione ricca di creatività ma anche di crisi e lacerazioni profonde, una stagione di notevoli mutamenti della città, a causa dell’espansione industriale, dei flussi migratori, degli eventi sociali e politici del ’68, dell’autunno caldo e degli anni immediatamente successivi. A oltre quarant’anni di distanza possiamo leggere quella dozzina d’anni (1965-1977) in cui si svolse l’episcopato di Pellegrino come gli anni più tumultuosi di un trapasso sociale, culturale e religioso difficilmente paragonabile a quello di altre epoche.

Pellegrino, un cristiano

Pellegrino amava citare le parole di Tertulliano: «Cristiani non si nasce ma si diventa». Non solo era un cristiano con una fede saldissima e profonda, ma riteneva la forma del vivere cristiano soprattutto come diretta opera fidei e così era sempre teso ad acquisire e a rinnovare una coerenza rigorosa proprio con il Vangelo. Purtroppo l’immagine del vescovo intellettuale ha fatto dimenticare la ricerca sul ragazzo e giovane Michele che da Roata approda al seminario di Fossano.

Ma non si può dimenticare che la sua vita fu fortemente segnata dalla perdita della madre («io e lei siamo entrambi segnati dalla perdita della madre in tenera età», mi disse più volte) scomparsa quando Michele aveva solo 4 mesi e quindi da lui mai conosciuta. Ma anche questo evento era sentito da lui come evento attraverso il quale Dio operava nella sua vita. Questo convincimento profondo emerge anche dalle parole di una sua omelia risalente al tempo in cui era vicario capitolare a Fossano (1935): «Quella mamma ha pregato così: ‘Signore Gesù, non farlo morire (questo figlio): che egli viva. Piuttosto prendi me: ti offro tutta la vita, ma che egli viva!’; sicché la Madonna avrebbe pensato lei a fare da mamma al suo bimbo! Quella mamma era mia mamma, e quel bimbo sono io».

A vent’anni, scrive sul retro di una fotografia che lo ritrae in divisa durante il servizio militare a Mantova: «8 settembre 1923, festa di Maria. Da diversi giorni mi perseguita un’idea, un proposito: voglio farmi santo! … il pensiero del sacerdozio mi spaventa sempre, ma comincio a pensare che con l’aiuto di Dio posso farmi sacerdote santo. O sacerdote santo o non sacerdote».

Il cristiano Michele Pellegrino sarà così perché in questo progetto è cresciuto e vissuto, fedele fino alla fine. Occorre dirlo: in lui il radicalismo o, se volete, il rigorismo evangelico si esprimeva in mille modi, a volte anche paradossali, massimalisti, portati all’estremo: si esprimeva nella sua ricerca intellettuale e spirituale, nel rifiuto di essere chiamato «eccellenza», nel suo vestire in modo dimesso e povero come nel suo rapporto con il cibo, ma anche nel suo rifuggire inaugurazioni e cerimonie ufficiali, nel suo declinare doni e privilegi, nel suo magistero pronto a ricordare che il Vangelo non è solo «buona notizia» ma anche «giudizio» in cui un giorno si sarà chiamati a rispondere.

Un rigorismo ascetico e spirituale che si nutriva ogni giorno innanzitutto della preghiera, che sempre ha avuto il primato nella sua vita di prete, di docente universitario e poi di vescovo.

Pellegrino, uomo delle fonti

Non si può parlare di Michele Pellegrino senza almeno menzionare la sua competenza storica, filologica e teologica in ambito patristico, acquisita all’Università Cattolica di Milano e proseguita nella ricerca e poi, dal 1938, nell’insegnamento all’Università di Torino. Quando mi chiese che la nostra comunità gli dipingesse un’icona con i padri della chiesa, volle che ci fossero Agostino, Basilio e il Crisostomo, perché gli ricordavano, disse, tre dimensioni episcopali in lui sempre presenti: l’amore per le pecore (Agostino), l’ansia della comunione ecclesiale (Basilio), la sollecitudine per i poveri (Giovanni Crisostomo). Il Padre aveva anche una forte consapevolezza di sedere sulla cattedra di san Massimo, e per questo lo leggeva e lo citava sovente, inspirandosi soprattutto al suo insegnamento di pater pauperum.

pellegrino

Pellegrino, il vescovo del Concilio

Il 26 agosto 1965, a Castelgandolfo, Paolo VI chiede a Michele Pellegrino di accogliere in obbedienza la nomina a vescovo di Torino. E’ proprio come vescovo eletto che prende parte alla IV e ultima sessione del Concilio e interviene due volte con suggerimenti sempre riguardanti il tema della cultura. Ma l’appellativo «vescovo del Concilio» o «padre conciliare» gli fu attribuito da p. Caprile sulla «Civiltà Cattolica». E, nella prima lettera al clero del 4 novembre 1965, scrive: «Due opposte tentazioni affioreranno facilmente nel periodo post-conciliare. Ci saranno i conservatori a oltranza che vorranno seppellire nell’oblio l’opera di aggiornamento e di rinnovamento intrapresa dal Concilio, adagiandosi nella comoda routine delle vecchie abitudini, anche di quelle che non rispondono più alle esigenze del nostro tempo. Altri, ritenendo che il Concilio abbia innovato troppo poco e che le riforme procedano troppo lentamente, crederanno lecito introdurre di loro arbitrio novità e cambiamenti. No, cari confratelli. Lo studio ponderato delle cose, lo spirito di fede, il senso dell’obbedienza debbono farci procedere sulla via maestra indicata da chi ci parla in nome di Cristo, capo supremo della Chiesa: dobbiamo frenare l’impazienza e non sostituire con un atteggiamento di riprovevole presunzione le nostre vedute alle norme che ci vengono dalla Chiesa stessa»  Un «vescovo del Concilio», in parte «convertito», così amava dire, dal Concilio stesso.

Si amas, pasce!, «Se ami, sii pastore»: queste parole di commento di sant’Agostino al capitolo 21 del Vangelo di Giovanni erano sovente citate da Michele Pellegrino. Era un vescovo di profonda carità. La sua attenzione ai piccoli e agli ultimi, la sua capacità di misericordia anche verso quelli che lo contraddicevano, la sua carità pastorale, soprattutto verso i confratelli presbiteri, sono state universalmente riconosciute.

Si amas, pasce!, altrimenti non fare il pastore. E «il servizio di cui il pastore è debitore alla comunità è l’esercizio dell’autorità… una autorità assolutamente segnata dall’amore e dalla pratica della comunione». «Un amore disinteressato e generoso, sempre memore che le pecore sono e rimangono del Signore», e una comunione che è data non tanto da parole ma da una presenza. E questa sua volontà di essere vescovo nella carità e sempre ispirato dalla comunione la si poteva constatare nella sua capacità di dialogo. Con lui non «si parlava» soltanto, ma si praticava il dialogo, il confronto, perché era innanzitutto un uomo di ascolto, capace di prestare attenzione all’altro, di interessarsi alle cose più concrete e di ricercare ciò che bruciava nel cuore dell’altro. Inoltre era un uomo talmente vero da essere capace di confessare i propri limiti, di riconoscere i propri difetti, di chiedere perdono e scusa quando si accorgeva di aver sbagliato: posso testimoniare che un giorno mi rimproverò al telefono con voce severa e alta, per poi richiamarmi, un paio di settimane dopo, resosi conto di aver sbagliato nel giudizio, e chiedermi scusa! Era un pastore limpido, di cui si era certi di potersi fidare nel consegnargli parole o nell’aprirgli il cuore.

Certo, il magistero e il servizio del Padre erano una sfida in tempi in cui si teorizzavano due Chiese, in cui la contestazione, di fatto, non sembrava più discernere la forma della Chiesa consegnata dalla grande tradizione e chiedeva una radicale novità che comportava il rifiuto e la condanna del passato; tempi in cui la disciplina ecclesiastica non era più ritenuta canonica per la vita dei presbiteri e dei fedeli, fino a spingerne alcuni alla scelta di rottura della comunione ecclesiale. E il Getsemani venne anche per padre Pellegrino, già nel 1971, in occasione della «Camminare insieme». Di questa lettera pastorale si fece subito un’interpretazione politicizzata, fortemente riduttiva e, simmetricamente, si levò una contestazione sempre più ossessiva nei confronti del suo episcopato. Attacchi rozzi, calunniosi presero di mira soprattutto quell’espressione, «scelta cristiana di classe», con la quale si era cercato di tradurre in termini applicati alla situazione di quel momento la «scelta preferenziale per i poveri».

Nella «Camminare insieme», accanto a citazioni del magistero di Paolo VI (Octagesima adveniens n. 23, Populorum progressio) e a riferimenti patristici, questa espressione voleva soltanto far comprendere in termini più attuali quella scelta preferenziale dei poveri che la Chiesa ha sempre predicato, ma va riconosciuto che qui c’è stato un vero misconoscimento delle intenzioni di Pellegrino, un’interpretazione faziosa che ha dato origine a fraintendimenti radicalizzando schieramenti opposti. Pellegrino, consapevole di percorrere spesso cammini non ancora esplorati dalla Chiesa, spiegherà così questa espressione: «Mi sembra di aver detto chiaro che cosa intendevo per ‘scelta di classe’, sull’esempio di Cristo e secondo la migliore tradizione della Chiesa: come l’impegno di dare il primo posto nell’opera di evangelizzazione e di promozione sociale ai poveri e agli indifesi, tenendo presente che non basta rivolgersi ai poveri individualmente perché esiste veramente una povertà di classe». Il Padre avrà anche la consolazione di una lettera autografa di Paolo VI del 4 marzo 1972, in cui il Papa esprimeva la sua «compiacenza per la lettera pastorale che finalmente ho potuto leggere per intero, gustandone l’accento semplice, calmo, autorevole e scoprendo il cuore pastorale da cui questo documento trae la sua sapienza». «Vorrei», continuava Paolo VI, «confortare il venerato pastore della Chiesa di Torino nella fatica del suo grave ministero».

Credo di poter affermare che in verità noi non eravamo preparati ad avere un pastore come Michele Pellegrino, e so di non essere il solo a pensarlo. Eravamo impreparati ad avere un vescovo che credeva alla libertà e alla possibilità di una corresponsabilità ecclesiale, a un autentico «camminare insieme». Impreparati al suo metodo che chiedeva obbedienza intelligente e matura. Impreparati alla sua parola libera che non temeva i giudizi degli uomini, e mai cedeva alla menzogna. Mons. Maritano, suo ausiliare, affermò un giorno: «C’è un peccato che il vostro arcivescovo non riuscirebbe a fare: mentire! Né con parole, né con maneggi, né con falsità e ipocrisia nel comportamento». E io aggiungo che il Padre, proprio per questa sua sincerità, non poteva neppur pensare che un presbitero osasse mentirgli.

Mi fermo qui. So di non aver messo in risalto altri aspetti importanti del suo ministero: il suo ecumenismo con l’amicizia con teologi e vescovi di altre Chiese, la sua attenzione al terzo mondo, la sua promozione del laicato. Voglio solo ricordare come i suoi ultimi anni siano stati segnati dal silenzio, un silenzio preannunciato dal titolo del suo ultimo scritto prima della malattia che lo privò della parola: Mutus Christum loquar. Silenzio dopo aver lasciato la diocesi prima del compimento dei settantacinque anni; silenzio dell’agnello afono dopo l’ictus; silenzio evocativo nella discreta presenza in mezzo ai ‘suoi’ poveri del Cottolengo…

A noi resta l’eredità di quest’uomo vero, di questo cristiano radicale e di questo pastore capace di amore, al di là delle polemiche e delle interpretazioni. A chi gli chiedeva tre chiavi per il nuovo millennio, il Padre rispose: «Ricordati che la prima cosa è l’umiltà, la seconda è l’umiltà, la terza è l’umiltà. Ma vorrei aggiungere, con l’umiltà, la speranza!»..

* Priore della Comunità di Bose

Testo liberamente condensato da Gian Mario Ricciardi

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