Chiesa, la forza del dialogo
Intervista a monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino e presidente del Comitato preparatorio del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, "In Gesù Cristo il nuovo umanesimo"
«La storia dei Convegni ecclesiali della Cei ci ha abituati ad affrontare serenamente, ma anche con estrema decisione e speranza, il cammino della nostra Chiesa, sempre inserito e legato alla vita della gente e quindi popolare. Anche il Convegno di Firenze riprende questa centralità della persona, allarga il discorso alle relazioni, oggi in forte difficoltà, data la cultura dominante dell’individualismo». Monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino e presidente del Comitato preparatorio del Convegno ecclesiale nazionale «In Gesù Cristo un nuovo umanesimo», che si svolgerà a Firenze dal 9 al 13 novembre, spiega il senso profondo di un appuntamento importante e atteso da tutta la comunità, perché considerato da sempre il “luogo” privilegiato per fare il punto sul rapporto tra Chiesa e mondo. Un Convegno che si annuncia «diverso» dagli altri che lo hanno preceduto: più «corale» e con una sola voce solista, quella di papa Francesco. Tante le novità, a partire dalla possibilità di intervenire, da casa, attraverso il web. Un’occasione davvero unica, soprattutto per i giovani. E, poi, l’invito rivolto ai convegnisti di visitare, in piccoli gruppi, le «periferie esistenziali» della diocesi di Firenze, per conoscere dal vivo quelle realtà che in campo sociale, culturale, educativo, assistenziale, spirituale sono dei veri e propri luoghi di «umanesimo».
Mons. Nosiglia, più di un anno fa, il 24 novembre 2013, Papa Francesco promulgava l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, il programma del suo pontificato. Fra meno di nove mesi a Firenze, il 9-13 novembre, la Chiesa italiana celebra il suo V convegno nazionale «In Gesù Cristo un nuovo umanesimo» dopo Roma 1976, Loreto 1985, Palermo 1995, Verona 2006. Lei è presidente del Comitato preparatorio. Come lega questi due eventi, l’Evangelii gaudium e Firenze?
Il fine del Convegno corrisponde pienamente a quello della Evangelii gaudium, che è quello di trovare vie nuove per l’evangelizzazione sulla scia della fedeltà al Concilio Vaticano II. La «Traccia» di preparazione al Convegno presenta il tema del nuovo umanesimo in Gesù Cristo non solo come fattore di crescita nella fede e nella testimonianza cristiana nel mondo di oggi, ma anche come punto di convergenza attorno a cui si può unificare l’azione pastorale, lo stile dell’annuncio proprio oggi della Chiesa, la riforma che papa Francesco indica come via concreta per rinnovare il volto della comunità a partire da un equilibrato discernimento sorretto dallo Spirito e guidato dalla volontà di conversione al Vangelo. Le cinque vie che la «Traccia» assume dalla Evangelii gaudium indicano i contenuti e il metodo di un’azione pastorale nuova e feconda per innestare la carica missionaria nelle nostre parrocchie come in ogni realtà ecclesiale.
La Cei ha chiesto a papa Francesco che venga all’apertura del convegno, una novità rispetto agli altri appuntamenti quando Paolo VI nel 1976, Giovanni Paolo II nel 1985 e nel 1995, e infine Benedetto XVI a Verona nel 2006 parlarono durante il convegno. La Cei, in sostanza, vuole che sia il Papa a orientare subito i lavori? È corretta questa lettura?
La partecipazione di papa Francesco subito all’inizio del Convegno assume un significato preciso di voler ricevere da Lui l’indirizzo fondamentale su cui dovrà muovere il Convegno. È una scelta conseguente al fatto che il Convegno, anche nella sua fase di preparazione, ha inteso riferirsi alla Evangelii gaudium e dunque all’impegno di assumere l’esortazione apostolica come cuore pulsante di tutto l’incontro. Chiediamo al Santo Padre di aiutarci a coniugare nel nostro oggi ecclesiale, culturale e sociale quanto egli offre a tutta la Chiesa mediante il suo Magistero. Tutto ciò senza disattendere o sminuire quella necessaria responsabilità che come Chiesa in Italia abbiamo di fronte alle problematiche che riguardano in concreto la nostra realtà ecclesiale e sociale in questo momento storico complesso e investito da un tumultuoso cambiamento, che investe la mentalità e il costume di vita di tante famiglie e persone e dei giovani in particolare.
La «Traccia» di preparazione riprende il richiamo bergogliano al rinnovamento, all’uscire da sé stessi per prendersi cura dell’altro, come dice l’Evangelii gaudium: «La comunità evangelizzatrice si mette, mediante opere e gesti, nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo». Il Papa suggerisce di passare dal confronto con il mondo contemporaneo a un incontro con gli uomini, dalle sfide ideologiche al rapporto personale. Insomma una Chiesa buon samaritano non giudica ma accompagna, non condanna ma consola. È così?
La storia dei Convegni della Cei ci ha abituato ad affrontare serenamente, ma anche con estrema decisione e speranza, il cammino della nostra Chiesa sempre inserito e legato alla vita della gente e quindi popolare. Ricordo i cinque ambiti del Convegno ecclesiale di Verona, che ponevano al centro della pastorale non tanto i programmi, le iniziative, le strutture e i mezzi, ma la persona, ogni persona avvicinata e accolta nella sua esistenza e, quindi, nei suoi affetti, nelle sue sofferenze, nel suo lavoro e nella festa, nella sua azione educativa e nell’impegno di cittadinanza che attiene alla fede vissuta di ogni cristiano. Anche il Convegno di Firenze riprende questa centralità della persona, allarga il discorso alle relazioni, oggi in forte difficoltà, data la cultura dominante dell’individualismo, e lo inserisce dentro quel dinamismo del cammino o delle vie che sono proprie della costante conversione che esige un cambiamento basato non tanto su norme fissate a priori, ma sull’accompagnamento e la ricerca insieme di una verità mai disgiunta dalla carità.
Un tema importante, «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo», ma in un certo senso anche un po’ provocatorio: perché cercare l’Uomo oltre l’Uomo? Sappiamo che l’antropologia odierna rischia di essere chiusa in sé stessa…
È vero che si tratta di un tema provocatorio, perché l’assolutezza del proprio io, considerato il centro di tutti e di tutto, sembra allontanare dall’accoglienza di un umano oltre l’umano. Ma in realtà non è così, perché la nostalgia del “di più” e della speranza che va oltre le pure necessarie speranze parziali di ogni giorno fa parte del Dna della persona in quanto creata da Dio e dunque donata a se stesso da un Altro al di fuori di sé. Questa importante acquisizione di essere persone donate e amate, prima che capaci di donare e amare, è ragionevole, oltre che rivelata dal Vangelo, che fa scoprire in Gesù Cristo quell’uomo nuovo che proprio perché si riconosce figlio sa amare in maniera unica e vera ogni persona fino al dono supremo di sé, anche verso chi lo perseguita e lo uccide. Si comprende allora la verità di quanto afferma la Gaudium et spes: «Chi segue Cristo Uomo perfetto si fa lui pure più uomo», perché capace di vivere nella gioia del dono di sé, di amare, di soffrire, di perdonare e di vedere in ogni altro suo simile un fratello.
Entriamo nel cuore di Firenze 2015. La «Traccia» propone cinque luoghi, o figure simboliche, nei quali individuare gli ambiti del convegno, cioè in che modo «gli ambienti quotidianamente abitati - famiglia, educazione, scuola, creato, città, lavoro, poveri ed emarginati, universo digitale e rete - sono diventati “periferie esistenziali” che si impongono» attraverso le cinque vie, suggerite dall’Evangelii gaudium: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. In questa ottica cosa significa per la Chiesa di oggi «Uscire»? e «Annunciare»? «Abitare»? ed «Educare»? e, infine, «Trasfigurare»?
«Periferie esistenziali» è un’espressione propria della Evangelii gaudium e indica il punto di partenza, non di arrivo, dell’azione pastorale, come spesso si tende a interpretare. Partire dalle periferie, invece, significa spostare l’asse portante della formazione e dell’azione di evangelizzazione da noi stessi e dai “nostri” agli “altri”, e soprattutto ai poveri e ultimi. Un famoso testo del Consiglio permanente della Cei di alcuni decenni fa afferma: «Dobbiamo ripartire dagli ultimi, se vogliamo affrontare con impegno e fecondità la crisi morale e sociale del Paese». Parole profetiche che sono rimaste forse un bello slogan e vengono oggi sdoganate dal Papa in maniera forte e precisa. Egli però aggiunge un “di più”: non solo una Chiesa che fa la scelta dei poveri, ma una Chiesa povera, una Chiesa che si sveste delle armature (leggi: beni e strutture considerati indispensabile per la pastorale, programmi, uffici, documenti, convegni...) ed entra nella mischia indifesa e munita solo dell’essenziale, che Cristo le ha donato.
Tra le novità che Lei ha annunciato, il fatto che il Convegno di Firenze sarà un appuntamento all’insegna della «coralità». In questo si riconosce molto la sua idea di Chiesa aperta, capace di parlare e coinvolgere il popolo di Dio, di “fare rete” tra le diverse realtà, come sperimentato con successo in questi anni alla guida della diocesi di Torino. C’è un po’ della sua Torino nel Convegno ecclesiale nazionale di Firenze? E come si svilupperà questa idea di coralità?
La coralità risponde alla sinodalità che la Chiesa di Torino cerca di promuovere come via e metodo da perseguire sia sul piano pastorale che sociale. Non vuole dire solo stimolare la partecipazione del popolo di Dio quale soggetto principe e indispensabile di tutta l’azione di annuncio e di carità della Chiesa e nemmeno, anche, solo collaborare e mettersi in gioco in qualche servizio specifico nella comunità, ma tende a rendere ogni battezzato corresponsabile in senso pieno del cammino della Chiesa in se stessa e nella storia. Il Convegno, sia attraverso il sito che sta avendo un grande successo, sia mediante la capillare sensibilizzazione della base ecclesiale, sia nella ricerca di un dialogo e confronto con altre correnti umanistiche laiche e religiose del nostro tempo, sia mediante un metodo di lavoro che promuoverà un’ampia possibilità di parola da parte di ogni delegato e da quanti, da casa, potranno intervenire mediante il web, sarà un esempio concreto di come occorra oggi muoversi nel rendere tutti più protagonisti e attivi.
Una seconda, grande novità che farà di Firenze 2015 un convegno ecclesiale diverso rispetto agli altri appuntamenti decennali, riguarda i convegnisti che nell’ultimo pomeriggio si trasferiranno in piccoli gruppi nelle «periferie esistenziali» della diocesi. Cosa faranno e quali realtà visiteranno?
Proprio per dare un esempio di che cosa significhi «Chiesa in uscita», il Convegno si aprirà all’incontro sul territorio della Diocesi fiorentina con tante comunità e persone che operano ogni giorno nel tessuto ecclesiale e sociale per annunciare e testimoniare il nuovo umanesimo in Gesù Cristo. Saranno oltre 40 circa i luoghi antropologici, culturali e pastorali dove i convegnisti potranno fare esperienze concrete di quanto l’umanesimo in Gesù Cristo risulti veramente efficace via di cambiamento e di una speranza nuova per tanta gente in difficoltà o in ricerca; o saranno comunque ambiti significativi e ricchi di umanità vissuta nella fede e nell’amore. Si tratta di realtà che agiscono nel campo caritativo e del sociale, del mondo del lavoro e dell’economia, delle povertà delle sofferenze e malattie e delle emarginazioni, della cultura e dell’arte nei loro diversificati linguaggi, del tempo libero e sport, dei giovani come delle famiglie, della scuola e università…
Una Chiesa in missione, dunque, profondamente radicata tra la gente, attenta ai giovani, alla famiglia e al sociale. Ma anche una Chiesa che sa “guardarsi dentro” e poi ripartire con nuovo vigore. Le sembra che queste caratteristiche siano ancora vitali oppure occorre rilanciarle, e in che modo? Inoltre, come può il Convegno ecclesiale di Firenze evitare il rischio dell’autoreferenzialità?
Occorre rilanciarle soprattutto sul piano della comunione tra sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose e laici. E poi, sul piano della rete da attivare tra parrocchie e movimenti e associazioni e gruppi. E infine, su quello di una quotidiana testimonianza personale in ogni ambito del vissuto. Le vie e i metodi vanno sperimentati con coraggio, ma è certo che dovrebbero essere nuovi e moderni anche nei linguaggi e nelle proposte comunicative, un settore delicato e complesso che non sempre è considerato importante, per cui si naviga un po’ a vista e in modo artigianale. Tocca ai giovani entrare in gioco con più vigore e creatività avendo spazi e responsabilità da parte del mondo adulto, chiuso dentro schemi superati e che si perpetuano quasi per inerzia. Scommettere sui giovani significa abbandonare il paternalismo autoreferenziale che si riempie la bocca di sterile giovanilismo e promuovere delle staffette generazionali dando fiducia ai giovani in ogni campo e sopratutto nelle cabine di regia sia ecclesiali che civili, politiche e sociali.
(ha collaborato Livio Demarie)
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