Tunisia, le sirene del fondamentalismo
Mediterraneo sempre più in fiamme dopo la strage al Museo del Bardo. Nel focus de «il nostro tempo» l'analisi del corrispondente da Tunisi. Sono 3 mila i tunisini abbagliati dal jihad
Mediterraneo sempre più in fiamme. Anche la Tunisia, l’unico Paese dove la “primavera araba” sembrava essersi evoluta positivamente, è sotto attacco. Mercoledì 18 marzo la notizia dell’assalto al Museo del Bardo, dove un commando di terroristi islamici ha seminato morte tra i turisti (anche italiani), ha sconvolto la vita della capitale Tunisi e si è riverberata in tutto il mondo. Esattamente quattro anni fa, nel marzo del 2011, la “primavera siriana” innescava quella che è stata definita «la più grande tragedia del Ventunesimo secolo». Un’immagine molto eloquente della Siria di oggi è quella foto satellitare che mostra un Paese “spento” all’83 per cento. Lo sono parimenti quei pannelli esposti al Palazzo di vetro dell’Onu, che ritraggono corpi torturati nelle prigioni del regime. Buio e orrore.
Se a Est c’è la tragedia siriana ,al centro la diplomazia cerca di risolvere la crisi libica e spingere le fazioni in campo a creare un governo unitario, capace di stabilizzare il Paese e sradicare il terrorismo dell’Isis. L’inviato Onu Bernardino Leòn ha tempo fino al 31 marzo per cercare di portare ordine nel Paese. I negoziati, però, sono difficili. Ancora più a Ovest, la Tunisia.
La quasi totalità della società tunisina non si riconosce in chi sostiene la prevalenza dell'islam radicale sulla vita quotidiana e respinge ogni forma totalizzante di presenza della religione al di fuori delle scelte di vita personali. La Tunisia, dunque, dice «no» ad un terrorismo che ha approfittato della morbida reazione dello Stato durante gli anni del governo della troika guidata da Ennhadha al primo manifestarsi dei movimenti islamici. Ma è anche vero che la Tunisia rimane il principale fornitore di foreign fighters del sedicente Stato islamico, con i suoi 3 mila giovani tunisini andati ad ingrossare le fila dell’Isis, almeno secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno, confermati, tra l'altro, anche dal Centro nazionale antiterrorismo americano. E a ben 9 mila di essi, sempre secondo la stessa fonte, sarebbe stato impedito di partire per i territori del Jihad in Siria, Iraq, e ora Libia.
La spiegazione, più che nel fascino delle ideologie deviate, va ricercata nelle condizioni di disperazione sociale e materiale e nella mancanza di speranza nel futuro che caratterizza le vite della maggior parte di questi giovani, marginalizzati ed esclusi dalla società. Senza lavoro, spesso con famiglie povere alle spalle, nessuna progettualità di vita, per loro il guadagno facile diventa un’esca per cadere nel fanatismo religioso.
leggi l'articolo completo su «il nostro tempo» di domenica 22 marzo
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