INTERVISTA
Don Milani, "padre, maestro e sacerdote"
A cinquant'anni dalla morte del priore di Barbania, uno dei suoi allievi, Francuccio Gesualdi, ne ripercorre la figura e il ruolo educativo, e ne ricerca l'eredità nella società contemporanea
A cinquant’anni dalla morte (il priore di Barbiana si spegneva il 26 giugno 1967), è necessario riflettere sull’opera e l’eredità di don Lorenzo Milani (1923-1967). Il Papa l’ha ricordato, insieme a don Primo Mazzolari, e andrà sui luoghi di azione pastorale dei due preti di frontiera. Il dibattito e l’acceso confronto che ancora suscita il priore di Barbiana è il segno della sua attualità, della sua freschezza e della sua profezia moderna.
Francuccio Gesualdi, allievo di don Milani, parla dell’uomo, il prete e l’educatore, della cui scuola nella quale, lui è uno di quelli, sono cresciuti giovani che hanno vissuto e costruito relazioni umane e progetti sulle orme dei suoi insegnamenti. I valori di fondo universali e condivisi di don Milani legano, infatti, il Vangelo alla nonviolenza e alla Costituzione. Ancora oggi l’eredità del prete fiorentino è presente nel rapporto tra Chiesa e mondo, nelle complesse dinamiche che uniscono politica ed economia e nelle sfide più difficili della società complessa e globale.
Alla scuola di don Milani. Cosa è stato per lei quel periodo: formazione, relazione, crescita?
Per me è stato tutto, anche perché, a differenza degli altri, non lasciavo mai la canonica che fungeva da scuola. A causa di alcune difficoltà familiari io e mio fratello abitavamo in casa con lui. Il priore, dunque, era al tempo stesso padre, maestro e prete. Lo vedevo sempre in questa triplice veste, quando gli servivo messa, quando lo ascoltavo come allievo, quando gli stavo sulle ginocchia dopo mangiato, quando mi accompagnava a letto in una casa senza elettricità. Ho trascorso a Barbiana tutta la mia fanciullezza, gli anni più pregnanti da un punto di vista formativo. Quando sono arrivato avevo sette anni, quando lui morì ne avevo diciotto. Barbiana era prima di tutto una scuola di libertà. Il suo obiettivo era renderci persone capaci di sapere sempre dire a noi stessi perché facevamo certe scelte invece di altre, di saper dominare la realtà, di saperla modificare assieme agli altri per i diritti di tutti. Tempi, contenuti, metodi della scuola, erano tutti organizzati per questo obiettivo, alla luce di un valore che lui ci trasmetteva più con l'esempio che con le parole: il sapere non deve essere usato per la propria carriera, per il proprio tornaconto, ma per la liberazione di tutti. Il concetto è riassunto in «Lettera a una professoressa», «uscirne da soli è l'avarizia, uscirne insieme è la politica".
Cinquanta anni dopo tutto è cambiato, il mondo trasformato: è ancora attuale il suo metodo?
L’Italia di cinquant’anni fa era ancora una società rurale, quella di oggi non è neanche più industriale: è una società terziaria dominata dall’informatica, dalla comunicazione, dalle biotecnologie. Dunque da un punto di vista economico e tecnologico la scuola di Barbiana appartiene a un’altra era geologica. Ma da un punto di vista della proposta mantiene tutta la sua validità. La sua grandezza sta nell’averci lasciato messaggi intramontabili. A partire dalla concezione educativa. Barbiana non ci concepiva come vasi vuoti da riempire o pezzi di argilla da modellare, ma persone da aiutare a dotarsi della capacità di capire e di esprimersi, di pensare e giudicare, di stabilire il bene e il male, in modo da sviluppare tutte le nostre potenzialità, umane, sociali, culturali per la dignità nostra e degli altri. E per citare un altro messaggio intramontabile, quello della responsabilità che deriva da una duplice convinzione. Ossia che la società è il risultato del comportamento di tutti e che tutti disponiamo di uno spazio personale su cui comandiamo solo noi. È lo spazio della coerenza, che non è solo un fatto morale, ma un fatto tremendamente politico, perché tutti i sistemi di potere si reggono sul consenso e sull’obbedienza. La capacità di giudicare con senso critico l’invito o l’ordine che riceviamo è il nostro spazio di responsabilità che, se esercitato, può condizionare l’intera società.
Don Milani ha eredi?
Io penso che don Milani abbia molti eredi, anche fra quelli che non sono stati a scuola da lui. Sono tutti coloro che cercano di mettere in pratica i suoi messaggi nei più vari ambiti. Sono eredi gli insegnanti che si occupano del bambino più indietro e spronano i primi della classe a mettere in comune i propri saperi. È erede chi cerca di comportarsi sempre in maniera consapevole e coerente con i propri valori: dal supermercato alla banca, dall’edicola alla cabina elettorale, dall’ufficio pubblico all’agenzia delle entrate. È erede chi sa denunciare qualsiasi abuso, torto o scorrettezza anche a costo di rimetterci. È erede chi accetta deleghe politiche non per consolidare il proprio potere ma per fare trionfare la giustizia e i diritti di tutti. In una parola, è erede chiunque si interroga, chiunque pretende di scegliere, chiunque rinuncia a strumentalizzare e sfruttare gli indifesi, chiunque è disposto a mettersi in gioco per costruire una scuola migliore e una società più giusta. Nel mio piccolo ho cercato di attuare questi principi fra mille contraddizioni e fallimenti. Ma tradimenti, incoerenze e fallimenti sono da mettere in conto: fanno parte della natura umana. L’importante è riconoscerli e ripartire da capo. Assieme ad altre famiglie ho fondato il centro «Nuovo modello di sviluppo» per dare al tempo stesso risposte immediate a situazioni di difficoltà e agire sul piano politico per rimuovere i meccanismi che generano emarginazione e miseria. L’integrazione fra solidarietà e politica è un altro messaggio forte del priore di Barbiana. Lo scrive molto bene in una lettera che mi inviò quando ero in Algeria: «L’elemosina è orribile quando chi la fa crede di essersi messo a posto davanti a Dio e ali uomini. La politica è altrettanto orribile quando chi la fa crede d’essere dispensato dal sentire bruciare dentro i bisogni immediati di quelli cui l’effetto della politica non è ancora arrivato. È evidente che bisogna con una mano manovrare le leve profonde della politica e con l’altra le leve piccine e immediate dell’elemosina.
Don Milani e la Chiesa. Don Lorenzo muore l’anno dopo la conclusione del Concilio. Possiamo considerarlo un suo figlio?
Più che un figlio del Concilio, lo considererei un precursore, nel senso che il suo pensiero convergeva verso uno dei messaggi chiave del Concilio che è l’ecumenismo. Per certi versi andava oltre. Non divideva i suoi parrocchiani in credenti e non credenti, ma li considerava tutti suoi figli. Scrive in «Esperienze pastorali»: «Io non vendo le mie singole prestazioni, ma vendo la mia vita intera a una comunità intera, e quello che faccio lo faccio per tutti uguale e non faccio piaceri speciali a nessuno perché tutti sono ugualmente miei figliuoli». Del resto era convinto che esistono verità assolute che accomunano non solo gli appartenenti alla stessa religione, ma tutti i religiosi e addirittura tutti gli uomini. Pensava che la verità è una e che nessuno la possiede per intero. Ma ognuno di noi, anche il più piccolo, ne possiede un pezzetto. Solo mettendoci insieme potremo trovarla.
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