Quale domani per Catalogna ed Europa
La crisi del Vecchio continente coinvolge anche il caso della penisola iberica
La contesa attorno all’indipendenza della Catalogna non ha certo scritto la sua parola fine, né con la dichiarazione d’indipendenza del Parlamento catalano, né con la risposta dura di Madrid del Senato spagnolo e del Governo. Una vicenda che non si concluderà domani, anche perché non è cominciata ieri. Già la Catalogna si era proclamata “repubblica indipendente” nel 1934, durò mezza giornata ma non finì lì.
Come un fiume carsico l’orgoglio catalano, forte di una sua storia millenaria e di una propria lingua, considerate requisiti per una nazione, riemerse a più riprese: la sua autonomia, soppressa durante il franchismo, venne riconosciuta dalla Costituzione spagnola del 1978 e rafforzata con il suo nuovo Statuto del 2006, approvato dal Parlamento spagnolo e rivisto in senso riduttivo nel 2010, a seguito di un ricorso del Partito conservatore di Mariano Rajoy, dalla Corte costituzionale: è la miccia che sarebbe esplosa pochi anni dopo e che è tornata a riesplodere nei giorni scorsi.
La conclusione, provvisoria, è nota: alla proclamazione della repubblica catalana indipendente da parte del Parlamento di Barcellona ha risposto la settimana scorsa il Senato di Madrid e il Governo spagnolo commissariando la Catalogna, destituendo il governo della Generalitat, sospendendone temporaneamente il Parlamento e indicendo nuove elezioni regionali per il prossimo 21 dicembre.
La contro-risposta degli indipendentisti si è mossa su percorsi diversi: decisione dei partiti indipendentisti di presentarsi alle elezioni, accettando implicitamente almeno in parte le decisioni di Madrid, e un provocatorio “esilio” in Belgio, terra di tensioni tra fiamminghi e valloni e sede delle Istituzioni UE, da parte del deposto presidente Puigdemont e dei suoi ministri.
Prima di provare a indovinare quello che potrebbe accadere di qui a fine anno, è necessario avere a mente almeno qualcosa della complessità della situazione, invelenita dalle opposte polarità tra Madrid-Barcellona, cui si aggiungono quelle tra monarchia e repubblica e tra passioni e ragioni.
Di ragioni all’apparenza sembrano essercene da entrambe le parti, ma la loro espressione in un dialogo ragionevole è mancato. Hanno infatti prevalso le passioni: quelle “tristi” e poco coraggiose della politica a Madrid e quelle bollenti e poco governate degli indipendentisti a Barcellona.
A Madrid è mancata una delle risorse fondamentali della politica, la capacità di prevenire i conflitti e mediare tra quelli in atto; a Barcellona ha fatto difetto un’altra dote essenziale, quella del realismo riformista, risucchiato dalla precipitazione rivoluzionaria. In entrambi i casi sembra valere quello che ebbe a dire quel politico di lungo corso che fu Giulio Andreotti: in Spagna “manca finezza”. Quella che invece ha già provvisoriamente caratterizzato la risposta di disponibilità al dialogo da parte di Paolo Gentiloni, dopo il recente referendum lombardo-veneto.
A Barcellona si è passato il Rubicone, qualcuno dice che si è sul bordo del precipizio: quello che minaccia l’intero assetto costituzionale spagnolo, ancora fragile, dopo l’uscita dal franchismo grazie anche alla monarchia, e opera un salto senza rete dall’autonomia all’indipendenza.
Unica luce in fondo al tunnel, la prospettiva ravvicinata di nuove elezioni indette dal governo madrileno, un possibile ponte di dialogo affidato a uno strumento di democrazia come il voto, non risolutivo ma utile per cominciare a cercare una soluzione e fare argine alla violenza, tanto a quella dello Stato, come avvenuto in occasione del referendum illegale, che a quella della piazza.
Dall’Unione Europea si guarda a questa aspra contesa con imbarazzo e rassegnata impotenza. Impossibile giuridicamente per il Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo delegittimare il collega Rajoy, nonostante i suoi errori “sovrani” e illudere gli indipendentisti catalani su un loro impraticabile ingresso nell’UE: sarebbe un messaggio ai tanti fautori di “piccole patrie” che contribuirebbe a provocare una frammentazione europea in un momento in cui la coesione, globalizzazione impone, è più necessaria che mai.
Se la politica fosse anche invenzione, come dovrebbe essere in situazioni straordinarie come questa, Bruxelles avrebbe l’occasione per riprendere iniziativa su un nuovo federalismo europeo, costruito su una “governance multilevel”, nel quale trovino una moderna articolazione i poteri di regioni, Stati e Istituzioni europee, per rispondere alle sfide globali ritrovando il contatto con i cittadini che, per diventare europei, devono essere, insieme, cittadini della regione e dello Stato in cui vivono.
E allora bisogna chiedersi, a questo punto, dove sono i cittadini europei, ascoltarne le attese e le ragioni, capire se vogliono l’Europa e quale. E poi ricostruirla, prima che sia troppo tardi.
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