Un compromesso al ribasso
Il Documento di economia e finanza varato dall’esecutivo: un fatto positivo, ma si può e si deve fare di più
É impossibile valutare il Documento di economia e finanza (Def) varato dal governo senza ricordare che il Paese ha appena vissuto una vera e propria «guerra dei sette anni», per rifarsi all’immagine utilizzata dal direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi. Una «guerra» che ha cambiato il volto dell’Italia, ha costretto a mutare abitudini consolidate, ha obbligato i governi ad adottare provvedimenti che erano stati colpevolmente rinviati per decenni, talora con l’imprecisione e gli errori tipici di chi sta lavorando sotto la pressione e l’urgenza imposte da mercati finanziari sempre più scettici e partner internazionali esasperati.
È ben triste che di fronte a questa situazione, e con una spesa pubblica che raggiunge gli 800 miliardi di euro, il dibattito sul Def, a livello di organi di informazione, si sia concentrato sull’ineffabile “tesoretto” da 1,6 miliardi di euro (che deriva da un volontario peggioramento dei conti, entro i margini di flessibilità consentiti a livello europeo, già presente con chiarezza nelle prime bozze del Programma di stabilità). Non si tratta quindi di una “sorpresa” (per chi legge i documenti), ma, è bene precisare, rappresenta lo 0,1 per cento del Pil, cioè nulla. Allo stesso modo, appare ben poco consolante che la dialettica all’interno dei diversi livelli della Pubblica amministrazione (significativo lo scontro con Regioni e Comuni in sede di predisposizione del Def) si sia consumata su tagli alla spesa corrente per 10 miliardi di euro (poco più dell’1 per cento della spesa pubblica complessiva e mezzo punto di Pil). Come se una famiglia che spende cento euro al giorno non fosse in grado di “tirare avanti” con novantanove…
Certamente l’assenza di incrementi di imposte nel Def, sventolata in continuazione dai rappresentanti del governo, è un fatto positivo, così come lo è il piano delle infrastrutture strategiche allegato al Documento. Ma non si riesce comunque a eliminare l’impressione di un compromesso al ribasso. Non ci sono nuove tasse, ma non ci sono neppure riduzioni fiscali, che è ciò di cui il Paese avrebbe bisogno per dare vita ad un circolo virtuoso tra miglioramento del reddito disponibile delle famiglie, delle aspettative, della domanda, della produzione e degli investimenti delle imprese, e quindi dell’occupazione. I dieci miliardi di tagli sono il minimo sindacale necessario per evitare che con il 2016 scattino le clausole di salvaguardia contrattate con Bruxelles, che impongono un aumento automatico delle imposte indirette (Iva e accise) qualora il governo non riesca a raggiungere gli obiettivi di bilancio con il taglio delle spese. Si può e si deve fare di più, andando oltre i posti nei Cda delle municipalizzate, i rimborsi e i vitalizi dei politici, che consentono tweet popolari, ma “non fanno cifra”.
leggi l'articolo completo su «il nostro tempo» di domenica 19 aprile
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