La sfida delle banche, gli effetti su Torino
Cosa succede nel sistema finanziario italiano con ripercussioni nel nostro territorio
Dopo un’autentica settimana di fuoco, i clamori sulla possibile integrazione tra Intesa Sanpaolo e Generali sembrano negli ultimi giorni essersi placati, mentre alla ribalta del dibattito finanziario è salita la questione della maxi-perdita 2016 di Unicredit e del correlato aumento di capitale, ai quali non è stata estranea la pesante flessione, vicina al 3 per cento, registrata dal listino azionario milanese lunedì 30 gennaio. In realtà il fuoco continua a covare sotto la cenere, e i due dossier Intesa-Generali ed Unicredit sono tutt’altro che scollegati tra loro.
Procedendo con ordine, la sola ipotesi della scalabilità di un colosso come Generali rappresenta la chiara evidenza del tramonto di quel capitalismo relazionale che nel nostro Paese ha troppo spesso anteposto a solidità, efficienza e competenza manageriale logiche di appartenenza politica o territoriale, quando non addirittura familistica.
Dopo l’epilogo della vicenda Montepaschi, che ha chiarito come fosse impossibile passare dal capitalismo dei campanili a quello globalizzato senza adeguate risorse, e corrispondente capacità di controllo dei comportamenti delle figure apicali, nel caso Generali si chiude definitivamente quel che resta del ruolo di tutela esercitato da Mediobanca sui grandi gruppi industriali e finanziari italiani.
Se vent’anni fa pensare di scalare Generali in contrapposizione a Mediobanca poteva apparire un suicidio di fronte all’influenza di quest’ultima sul mercato finanziario e sul sistema politico italiano, oggi le azioni, per parafrasare Enrico Cuccia, si contano e non si «pesano» più. Quindi Generali, che ha in Mediobanca il primo azionista con appena il 13 per cento del capitale, non può in alcun modo sentirsi al sicuro.
È pur vero che altri soci di rilievo del Gruppo triestino come le famiglie Caltagirone (con il 3,5 per cento), Del Vecchio, Boroli-Drago e Benetton sono storicamente legate a Mediobanca, ma non v’è dubbio che non rimarrebbero insensibili di fronte ad una offerta vantaggiosa e ad un piano industriale promettente. Ciò tanto più che alla evidente scalabilità di Generali non è estranea la insoddisfacente performance borsistica degli ultimi anni, non certo compensata dalla fiammata successiva alle prime voci di un interesse dei francesi di Axa e oggi di Intesa Sanpaolo.
La capitalizzazione della compagnia triestina è molto inferiore a quella dei suoi grandi competitor europei, in primis Allianz, Zurich e la citata Axa, anche a fronte di una selezione del management ispirata, più che alla ricerca dell’eccellenza, ad una forse eccessiva valorizzazione della ‘lealtà’ nei confronti dell’azionista di riferimento. A ciò si connette altresì un utilizzo piuttosto disinvolto della ‘potenza di fuoco’ finanziaria di Generali in operazioni di sistema (Telecom, Alitalia, gli stessi Btp italiani nel periodo più nero della crisi dello spread) certamente funzionali alla massimizzazione dell’influenza di Mediobanca, ma molto meno alla creazione di valore per la generalità degli investitori.
E a questo punto chiara l’importanza di un convincente piano industriale, che sia in grado di individuare e far concretamente emergere i vantaggi da un’integrazione tra la prima banca italiana e la terza compagnia di assicurazioni europea. Su questo fronte sarebbe un gravissimo errore pensare di giustificare qualsivoglia operazione con una malintesa difesa della ‘italianità’ (magari avallata dal mondo politico per ragioni di bassa cucina elettorale) che riporterebbe alla memoria decisioni sciagurate come quelle che in passato hanno coinvolto Alitalia.
Intendiamoci, Generali è una realtà solidissima, che certamente può essere gestita in modo più dinamico una volta liberata dalla tutela di un azionista troppo attento ad aspetti estranei alla gestione assicurativa in senso stretto. La diversificazione internazionale, che si concretizza in una significativa presenza sul mercato francese, tedesco e dell’area mitteleuropea, rappresenta un rilevante punto di forza sul piano della generazione di margini e del frazionamento del rischio industriale e del rischio-paese.
Un’integrazione all’insegna della difesa della ‘italianità’, che fosse raggiunta al prezzo di uno ‘spezzatino’ con cessione delle partecipate estere ad operatori come Allianz o AXA per abbassare il costo dell’operazione in capo all’acquirente, sarebbe decisamente sconsigliabile, portando ad aumentare moltissimo il posizionamento sul mercato nazionale del combinato disposto tra Generali e le attività assicurative del Gruppo Intesa Sanpaolo.
Si potrebbe certamente osservare la positiva complementarietà tra una Generali Italia concentrata prevalentemente sui rami danni e una Intesa Sanpaolo Assicura protagonista del Ramo Vita, ma sarebbe fare i conti senza l’oste (rappresentato dall’Antitrust a cui l’operazione dovrebbe essere inevitabilmente sottoposta). Per contro, se l’integrazione fosse effettuata salvaguardando il respiro internazionale delle Generali il ‘boccone’ potrebbe essere troppo grosso per una Intesa Sanpaolo patrimonialmente inappuntabile, ma anch’essa molto impegnata in operazioni «di sistema» necessarie alla sostenibilità del sistema bancario italiano nel suo complesso.
Il tutto senza dimenticare che a livello internazionale le esperienze recenti di integrazione bancario-assicurativa non hanno sempre mostrato esito del tutto positivo.
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