Cultura di impresa sui banchi di scuola
La ricetta del nuovo presidente del gruppo giovani imprenditori per rilanciare l’occupazione
Alberto Maria Barberis è il nuovo presidente del Gruppo giovani imprenditori (Ggi) dell’Unione Industriale di Torino per il triennio 2016-2019. Torinese, classe 1976 e laureato al Politecnico di Torino, Barberis a 29 anni ha fondato insieme a due amici e colleghi, Protocube, una start-up innovativa legata al mondo della modellazione digitale e stampa 3D e che quest’anno è entrata a far parte del gruppo Reply, network multinazionale di aziende specializzate che affiancano i principali gruppi industriali nella definizione di nuovi modelli di business.
Presidente, in un periodo di ripensamento delle organizzazioni di rappresentanza quale ruolo gioca il suo gruppo?
All’interno dell’Unione Industriale rappresentiamo le istanze più innovative e le esigenze delle realtà giovanili. Siamo l’anello di collegamento tra mondi che troppo spesso sono percepiti completamente separati: impresa e giovani. Per queste ragioni una delle attività qualificanti del mio mandato è legata alla diffusione della «cultura di impresa» nelle scuole. Siccome «l’educazione all’impresa» non è materia scolastica, con il Ggi si cerca di far conoscere il più possibile alle nuove generazioni un mondo che si fonda su valori come la fiducia, la responsabilità, l’onestà, impegno e la perseveranza, elementi che quanto più diffusi e presenti in una società tanto più la rendono migliore.
Il suo profilo biografico è l’esempio del cambiamento che sta attraversando Torino. Anche la sua elezione è un segno dei tempi?
In effetti è una delle prime volte che il presidente dei Ggi proviene da una startup innovativa che non nasce in seno a famiglie con una tradizione d’impresa alle spalle. Inoltre, in una città ad alta concentrazione manifatturiera, anche la scelta del gruppo di puntare su un presidente con esperienza nel campo dell’innovazione digitale dimostra l’interesse e la sensibilità delle giovani leve verso le frontiere della nuova economia.
Secondo lei questo cambiamento in atto in cosa si traduce?
Torino ha una grande ricchezza manifatturiera, un patrimonio di saper fare le cose che non va disperso. Oggi la grande occasione di crescita e sviluppo sta nel coniugare questo immenso capitale accumulato nel tempo con le nuove frontiere digitali. Organizzazioni sociali, Enti locali, Università e tutti i principali portatori d’interesse cittadini dovrebbero fare sempre più fronte comune per concentrare forze e risorse utili a facilitare questa «rivoluzione copernicana» in atto.
Il contributo dei Giovani impenditori quale può essere?
Il nostro impegno quotidiano è su diversi fronti, ma voglio sottolineare quanto sia importante la diffusione della «cultura d’impresa» soprattutto tra le giovani generazioni. Questa è una delle missioni che dobbiamo perseguire con sempre maggiore incisività. Purtroppo in Italia attorno alla figura dell’imprenditore spesso si annidano stereotipi negativi che disincentivano l’attività in proprio. Il secondo aspetto su cui voglio impegnarmi è frutto dell’esperienza personale: quando 10 anni fa ho cofondato Protocube, credevo che l’attività d’impresa si esaurisse nel prodotto, mentre poi ho scoperto, ad esempio, l’importanza del marketing, della comunicazione e delle relazioni. È fondamentale che chi ha voglia di fare impresa abbia ben chiaro il quadro delle proprie attività sin dall’inizio, elemento che accelera di sicuro il successo dell’idea da realizzare.
Secondo lei Torino oggi è ancora una città dove è possibile fare impresa?
Nella nostra area ci sono aziende leader in quasi tutti i settori della produzione. Questo rende fertile il terreno per fare imprese. Quindi direi di sì, il contesto è favorevole. Ma questo elemento da solo non basta. Le criticità dovute all’ «incertezza burocratica» e ai livelli di tassazione, ad esempio, sono un grave disincentivo all’attività d’impresa. Su questo fronte il Gruppo è in prima linea nel chiedere interventi che riducano il più possibile l’impatto di queste esternalità negative sulle aziende.
Il suo ruolo e la sua attività spesso la portano in giro per il mondo. In base alla sua esperienza cosa le piacerebbe importare a Torino dall’estero?
Indubbiamente alla «Silicon Valley» americana bisogna guardare con maggiore interesse. Nessun modello è replicabile senza aggiustamenti dovuti al contesto, ma di quel luogo mi ha colpito l’attitudine al continuo miglioramento di chi ci lavora e opera. Si respira nell’aria l’idea di puntare ad essere il migliore in ciò che fai. E questo è stimolante e rende dinamici. Infine l’attitudine al rischio, al provarci, al mettersi in gioco. Non c’è la paura di fallire. Nello spirito del luogo è socialmente più grave l’immobilismo di chi per paura di fallire non si mette in gioco.
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