Il lavoro che non c'è
L'impiego precario ha trovato nuove forme, con l'uso smodato e improprio dei voucher, mentre il "nero" si allarga
Agli inizi del 1986 un libro di F. Carminati e A. Accornero dal titolo «I paradossi della disoccupazione» analizzava puntualmente le dinamiche nel mercato del lavoro italiano, che avevano prodotto un “sorprendente” aumento contemporaneo della occupazione e della disoccupazione. Evidenziando che le statistiche andavano lette, sviscerate e interpretate con grande attenzione e cura. Eppure ancora oggi, ogniqualvolta trimestralmente l’Istat pubblica i dati, fotografando l’aggiornamento della situazione lavoro nel nostro Paese, invece di capirne tutti un po’ di più si scatena la battaglia delle valutazioni, delle accuse e dei meriti su quanto la bottiglia sia piena e il “vino” che contiene buono e quanto invece sia vuota e il vino assomigli più ad aceto.
Si alimenta la confusione in una opinione pubblica (persone e famiglie) diffidente; riottosa ai freddi dati generali e formatasi un propria cognizione di causa, basata su esperienze e percezioni sentite e vissute nella quotidianità. Il dialogo fra numeri “oggettivi” e sentiment “soggettivi” personali, collettivi si manifesta difficile e complicato. La lunghezza della crisi, che ormai ha travalicato perfino la previsione biblica dei sette anni di vacche magre, ha spiazzato e destabilizzato molte imprese e famiglie che avevano creduto che, come altre volte, si sarebbe riassorbita più velocemente e con minori danni. La profondità dei suoi effetti economici, sociali, culturali in campo lavorativo, nelle diseguaglianze economiche, fra generazioni, generi, fra “italiani e stranieri” ha squassato molti equilibri di vita e convivenza e ha certamente contribuito ad acuire un clima disorientato, di paure e tensioni.
Ciò detto, osservando quanto è successo finora, durante gli anni della crisi, si può dire che emergono alcuni aspetti e problematiche in una dimensione non solo più emergenziale ma strutturale. La dura e ampia trasformazione della economia italiana non riesce a creare una quantità di nuovi posti di lavoro tale da compensare quelli che distrugge. Una tendenza che pare ancora avviata a perdurare. Inoltre, non sempre le nuove opportunità di lavoro sono immediatamente disponibili e incontrano le aspettative e le caratteristiche di chi ri/cerca un lavoro; non si incrociano con skill professionali adatti e/o a sufficienti condizioni d’accesso di base (es. una patente; strumenti di conciliazione famigliare; stato di salute ecc.); deludono attese di reddito e di mobilità sociale superiori a quanto viene offerto.
Si tratta di una sfasatura (mismatch) che potrebbe accentuarsi in proiezione futura. Visti la continua e pervasiva innovazione organizzativa, tecnologica, di automazione e digitalizzazione che plasma, pur con differente intensità, tutti i settori, la internazionalizzazione/trasferimento all’estero di produzioni e servizi in ragione di minor costo, la evoluzione al ribasso della domanda pubblica di lavoro che riguarda importanti bacini di mercato del lavoro (non) qualificato del terziario (assistenza, sanità, ricerca), i mutamenti socio-demografici, famigliari nella popolazione. Una prospettiva che riguarda sia i giovani che si iscrivono oggi al primo anno di una scuola superiore e vorranno/potranno magari laurearsi; sia parecchi adulti che si apprestano a compiere le “ultime” miglia del cammino verso il ritiro dal lavoro e la pensione.
Bisogna guardare bene e a fondo “dentro” ai mercati del lavoro territoriali, oltre le cifre complessive, di superficie, per individuare sotto traccia dei segni, dei profili premonitori di quanto potrà configurarsi un domani. Già nel 2008 Torino presentava una situazione particolarmente critica della disoccupazione, rispetto agli altri grandi Comuni del centro-nord. Con l’esplosione della crisi questo divario si è accentuato accompagnandosi ad una performance modesta pure nella occupazione. Eppure tale andamento complessivo rischia di semplificare troppo quanto realmente accaduto nel capoluogo piemontese: «L’impressione è che un processo di adattamento sia in atto con alcuni segnali positivi (la dinamica upgrading della domanda, la crescita consistente delle professioni tecniche e ingegneristiche, i servizi al turismo e alle persone) che, tuttavia, non appaiono ancora abbastanza intensi da compensare quelli negativi (il forte spiazzamento dei profili a bassa qualificazione e di quelli impiegatizi a tutti i livelli) e che alcuni settori (servizi sanitari e edilizia) non sono ancora, per ragioni diverse, nelle condizioni di contribuire alla creazione di un mix produttivo ed economico plurale verso cui la Città Metropolitana appare, in ogni caso, indirizzata» (Ires. Piemonte Economico e Sociale 2016).
Il tema ricorrente di quanta crescita si lega vieppiù con quello di quale crescita sia possibile e necessaria. Un assioma indissolubile per verificare il probabile mixaggio dei nuovi posti di lavoro con l’elevata disoccupazione di lunga durata giovanile (neet) e la permanenza nell’impiego della fascia adulta/anziana degli occupati. Nel complesso in Italia la quota di Pil nazionale da lavoro è diminuita, mentre la distribuzione dei redditi si è polarizzata sui più elevati e sui più bassi; con ulteriori differenze fra maschi e femmine, fra anziani/adulti e giovani, fra lavoratori italiani e stranieri; fra lavoratori insider e lavoratori outsider. Sono di più le famiglie povere in cui il capofamiglia lavora; il lavoro nero e grigio si è allargato, soprattutto in alcuni settori del terziario e nell’agricoltura; il lavoro precario ha trovato nuove forme, con l’uso smodato e improprio dei voucher (lavoro accessorio) e distorcendo la formula dei tirocini e stage.
Il sistema categoriale di ammortizzatori sociali prima e post Job Act ha agito limitando gli effetti sociali negativi della crisi; ma in carenza di misure ampie, articolate e pluriennali di politica attiva. «Garanzia Giovani» ha mostrato risultati in chiaroscuro. La stagione di incentivazione ad assumere a tempo indeterminato ha dato buoni frutti; ma, come prevedibile, si è insterilita con il venir meno della generosa fiscalizzazione degli oneri sociali per le aziende. L’adozione di un Piano e di uno strumento pubblico nazionale universale/selettivo come il Sostegno di inclusione attiva (Sia) - che confluirà nel 2017 nel Reddito di Inclusione (Rei) - rappresenta una novità nella lotta alla povertà assoluta e alla esclusione sociale; ma richiederà, per essere esteso e stabilizzato a tutti i cittadini/famiglie che ne hanno diritto, un incremento delle risorse per sussidi e servizi. C’è bisogno di investire e implementare strategicamente le politiche pubbliche educative, dell’istruzione e formazione professionale, del lavoro, del welfare. Utili per superare le tre “segmentazioni” che affliggono il mercato del lavoro italiano «fra lavoro regolare e irregolare, fra territori, innanzitutto Nord e Sud, fra le generazioni, che nell’ultimo quarto di secolo di sono intersecate fra di loro, creando forti squilibri spesso colmati dai lavoratori stranieri» (G. Dalla Zuanna. Il Mulino 2/16).
In questo orizzonte si colloca anche a pieno titolo il ruolo delle parti sociali (Organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle imprese); della contrattazione collettiva (nazionale, territoriale, aziendale) come specifico apporto in materia di produttività e welfare; di uno sviluppo economico coniugato con la solidarietà sociale.
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