La cura della Banca Centrale Europa servirà per aggredire la crisi?

Una approfondita analisi del docente dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano e dell'Università di Torino che analizza i possibili scenari dopo la cura "Draghi"

Parole chiave: draghi (2), bce (2), tassi (4), economia (65), sviluppo (16), crisi (35)
La cura della Banca Centrale Europa servirà per aggredire la crisi?

Il 22 gennaio la Bce ha annunciato che intende acquistare ogni mese titoli pubblici di paesi della zona euro per 60 miliardi, 720 miliardi all’anno. Questo finché l’inflazione nella zona euro non si rialzi un minimo.  Significa che anche l’Italia può vedere un po’ di luce in fondo al tunnel e si rimetterà a crescere? Significa che ci saranno molte più opportunità di lavoro? Significa che vedremo accorciarsi le code di questuanti davanti alle sedi Caritas? La zona euro avvia ora operazioni che sono già state ampiamente collaudate negli Stati Uniti, nel Regno Unito ed in Giappone. In quei paesi  gli acquisti di titoli pubblici hanno avuto alcuni effetti positivi ed hanno sollevato anche serie critiche. Il principale effetto positivo è consistito in una riduzione della spesa per interessi da parte dei governi di quei paesi. Le banche centrali, comprando titoli di stato, riducono il rischio che essi vadano invenduti, permettendo ai rispettivi governi di finanziare il proprio debito, pur offrendo rendimenti più bassi. In questo modo la spesa per interessi dei governi va riducendosi, lasciando loro più’ ampio spazio per provvedere agli altri tipi di spesa. Nel Regno Unito si è andati anche oltre: la banca centrale trasferisce  al governo quanto guadagna sul debito pubblico, ovvero quello che la mano destra riceve dal governo la mano sinistra restituisce.

Si noti pero che in tutti questi paesi la spesa dei governi non per interessi (quella in beni, servizi e pensioni) ha mediamente  ecceduto di 6-7 punti di PIL le entrate dello stato in tasse e contributi. In quei paesi vi è stata una politica monetaria espansiva (acquisti di titoli pubblici), ma essa è stata accompagnata da una politica fiscale pure fortemente espansiva (più spesa in beni, servizi e pensioni che entrate da tasse e contributi). E’ difficile dire quanto i risultati ottenuti in termini di crescita e di calo della disoccupazione siano da attribuire all’acquisto di titoli e quanto al deficit pubblico, ma certo vi hanno contribuito entrambe. La riduzione dei tassi di interesse avrebbe anche dovuto condurre ad una crescita del credito all’economia, alle piccole e medie imprese in particolare. Su quest’ultimo punto i risultati sono stati meno sicuri. Tutto ciò vuol dire che anche in Europa gli acquisti di titoli avranno effetti benefici? Qualche effetto benefico dovrebbero averlo, ma assai modesto. Questo perché in Europa questa operazione cade in un contesto in cui si è scelto di perseguire delle politiche fiscali (tassazione e spesa pubblica) assai restrittive sintetizzate dal così detto «Fiscal Compact», un trattato che impone ai 25 stati firmatari di non avere deficit di bilancio (spesa pubblica totale, inclusiva di interessi, meno entrate dello stato) mai superiore al 0,5% del PIL. Dato che il «Fiscal compact» e gli altri indicatori europei guardano ad una spesa pubblica inclusiva degli interessi, una riduzione della spesa per interessi potrebbe portare qualche beneficio a paesi come l’Italia, che finora hanno speso per interessi somme ingentissime (circa 75 miliardi o 5% del PIL all’anno, poco meno di tutta la spesa sanitaria). Si tenga però conto che il debito italiano ha una scadenza media di poco più di 6 anni e che quindi prima che i più bassi tassi di interesse possano ridurre la nostra spesa per interessi in modo significativo occorrerebbero alcuni anni. Per il 2015 l’aiuto dovrebbe ottimisticamente consistere in  massimo 6 miliardi di euro.  Un vantaggio che va da uno a quattro millesimi di PIL a secondo di come lo si calcoli. Qualche modesto beneficio potremo anche averlo dal deprezzamento dell’euro.

Il fatto che la Bce si appresti a stampare degli euro potrebbe condurre  ad un duraturo deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro. Questo, da un lato ci renderebbe più costoso acquistare materie prime fuori dall’Ue, ma dall’altro renderebbe le esportazioni della zona euro più competitive. Si presti però attenzione che per molti prodotti italiani, (per esempio macchinari industriali ed utensili) il  concorrente più diretto delle nostre imprese è un’impresa tedesca. Su questo tipo di concorrenza il «deprezzamento» dell’euro non avrà ovviamente alcun effetto. Per quanto riguarda le materie prime va ricordato che in questo momento hanno prezzi comunque piuttosto bassi. Gli effetti non saranno però solo positivi. La Bce compra titoli dalle banche e da altre istituzioni finanziarie private. In questo modo essa fa aumentare il valore dei titoli pubblici e fa diminuire il loro rendimento. Questo probabilmente indurrà gli operatori finanziari a cercare altrove rendimenti più elevati. E` prevedibile quindi che essi si indirizzino verso attività più rischiose e redditizie, così come è  già successo in passato. Sia la Banca dei Regolamenti Internazionali  che il Fondo Monetario Internazionale hanno già suonato, giustamente, l’allarme: in questo modo una nuova crisi finanziaria diviene più probabile. Si tenga conto che il sistema finanziario internazionale non è stato sostanzialmente riformato dopo i disastrosi eventi del 2007/2008, gli stessi prodotti tossici continuano a circolare e gli stessi comportamenti pericolosi degli operatori continuano a ripetersi. Questo succede anche se le magistrature di diversi paesi hanno riscontrato nel sistema finanziario una serie di attività criminali (frodi sulla fissazione dei tassi di interesse Libor ed Euribor, frodi sui cambi di cambio delle valute, frodi sui metalli preziosi, riciclaggio di denaro sporco, frodi ai danni dei piccoli investitori ed altro ancora).

Il sistema finanziario continua ad essere un entità pericolosissima e queste operazioni di acquisto di titoli non fanno che accrescere questi rischi. Un altro aspetto negativo di queste operazioni di acquisto di titoli consiste nell’accresciuta disuguaglianza che esse portano. Una parte significativa dei benefici di queste operazioni (il 40% secondo certi studi) va a pochi ricchi e molto ricchi, che si ritrovano con un’accresciuta ricchezza finanziaria. Ai poveri, se va bene, arriveranno le briciole. L’occupazione con una crescita dello 0,5% del PIL non dovrebbe crescere significativamente. Riassumendo. La Bce compra titoli pubblici, qualcosa che ha contribuito a risollevare le economie di Usa, Regno Unito e Giappone. A fronte di modesti effetti positivi vanno segnalati i probabili effetti di accrescere la rischiosità dei mercati finanziari e la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, con l’occupazione al palo. Si sarebbe potuto fare meglio? Con le regole attuali  probabilmente no. In questo contesto normativo, Draghi ha fatto il massimo. Delle regole che per ottenere modestissimi risultati sul fronte della crescita richiedono maggiori rischi di crisi finanziaria e maggior disuguaglianza sociale non sono probabilmente adatte a provvedere al bene comune. Alcuni autorevoli economisti   fin dagli anni Trenta hanno fatto notare che non c’è nessun valido motivo per cui una banca centrale debba comprare i titoli pubblici dagli intermediari finanziari privati, creando rischi inutili e disuguaglianza. La banca centrale potrebbe accreditare somme molto  più modeste direttamente sul conto del rispettivo governo, permettendogli di provvedere a spese necessarie per il bene comune.

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